“Faccio bene o faccio male ad interpretarla? Lei è Anita Ekberg”. A Monica Bellucci, col tempo, ma forse anche prima, la saggezza, oltre che tutto il resto, non manca. The girl in the fountain – Fuori Concorso al 39esimo Torino Film Festival – è il film che incorona la Bellucci regina del cinema per sottrazione. Sarebbe il tradizionale film nel film, mise en abyme progressiva nel gorgo magmatico del raffronto tra la diva dell’oggi e la diva di ieri, quell’Anita Ekberg, ragazza nella fontana, ascesa e declino di un successo che appare in un lontano e ruvido bianco e nero, Hollywood sul Tevere anzi nel fontanone felliniano di Trevi, Marcello hurry up e quell’abito nero che si fonde nell’acqua. Ma Monica (e Antongiulio Panizzi, regista e sceneggiatore del film) fa un passo di lato, elegante, sincero, brillante, come solo la maturità del divismo può dare. C’è il regista fittizio e doppio (Roberto De Francesco) che vuole la Bellucci (quella vera) ad interpretare la Ekberg.
Il film, che mai inizierà, è però un percorso di preparazione (trucco, parrucco, abiti, battute, pose, gesti), simbolico prisma multidimensionale, dove l’attrice umbra recita in levare, sfugge formalmente e splendidamente dall’istrionismo, ed osserva incantata, quasi fosse essa stessa spettatrice del film, la giunonica bionda svedese che conquistò lo sguardo del mondo. E proprio mentre la Bellucci le si avvicina (il countdown dell’inizio delle riprese del film fittizio cadenza la narrazione) ne evita la copia, il richiamo, l’imitazione. Intanto The girl in the fountain, tra una Bellucci insignita di chiavi civiche delle città italiane, lauree ad honorem, pose anticonvenzionali in atelier artigianali, ecco risplendere tutta la biografia (appassionante, densa) di Anita: dall’avventura solitaria e fortunata ad Hollywood fino al ruolo ne La dolce vita, dritta poi verso un cupio dissolvi fatto di memorie continue nei talk e alani protettivi nella villa in cui ha abitato da anziana.
Dice la voce fuori campo di Marco Giusti (finalmente i visi delle voci fuori campo degli intervistati non appaiono, bravo Panizzi): la parte che Fellini le diede ne La dolce vita “la ammazza”. Vero. Triste, pure. E dolorosissimo. Anita che precipita professionalmente. Anita e la lotta contro i paparazzi (celebri le foto che riappaiono qui quando ne caccio alcuni con arco e frecce vere). Anita e i suoi mariti alcolisti (Anthony Steel) e mariti ladri (Rick Van Nutter), amanti ai suoi piedi (Walter Chiari) e dietro i cespugli (Gianni Agnelli), humor tagliente e consapevole, divinità suprema di una sessualità dirompente e in costruzione nel dopoguerra occidentale ancora bigotto. Insomma l’archivio (del Luce e non solo) che ritrae la Ekberg e che vediamo sullo schermo andrebbe rifatto dalla Bellucci. Ma questo, appunto, non avviene, fino a quando la Bellucci si reca nella villa romana dell’attrice svedese e con un minuto trapasso onirico omaggia “Anitona” e la illumina di eterno immenso.
“Fortunatamente il cinema mi ha permesso di esprimermi oltre lo stereotipo dell’ “attrice bella”. Oggi la bellezza non è più legata al momento biologico, come invece accadde per la Ekberg. Io oggi posso esprimermi recitando anche dopo i 30 anni, dopo i 40, pure dopo i 50”, sorride la Bellucci tra gli austeri interni di un rinomato hotel torinese mentre fa da madrina affascinante del TFF. “Abbiamo ridato a questa donna e attrice quella luce che la vita le aveva tolto. Io non l’ho mai incontrata, ma emana qualcosa di buono, ti fa venire voglia di difenderla. Perché lei non avendo una vera e propria protezione maschile all’epoca del successo venne lasciata a se stessa”, continua Bellucci. Ed è proprio quel fascino femminile che prorompe naturale in scena ma che rischia di ingabbiare sterilmente l’artista, che l’interprete di Irreversible e La passione di Cristo allontana saggiamente con una battuta, unico ritaglio dolcemente narcisistico in The girl in the fountain. Qualcuno le chiede: “Proverebbe fastidio nel rimanere nell’immaginario collettivo come Malena?”. E Bellucci: “Magari!”.