Il freddo sull’Appennino bolognese è di quelli che taglia le mani e la faccia. Quando picchia duro si guardano sempre le montagne: “Sta arrivando la neve”. Così davanti alla Saga Coffee di Gaggio Montano al posto dei camion c’è un via vai di coperte, sacchi a pelo e legna da bruciare nei bidoni per scaldarsi. Qui, da più di tre settimane, decine di lavoratori e lavoratrici vivono in presidio davanti ai cancelli dell’azienda, dividendosi tutta la giornata in turni. Accolgono giornalisti, operatori, istituzioni e i tantissimi commercianti che ogni ora arrivano per regalare formaggi, focacce, pizze, dolci e frutta in solidarietà. Dal piazzale non si spostano. “È il nostro modo, l’unico che abbiamo, per proteggere la fabbrica e salvare il lavoro”.
Producevano macchine da caffè per ufficio. Il 5 novembre la multinazionale italiana Evoca Group, controllata al 100% da un fondo americano, ha annunciato la chiusura dello stabilimento entro marzo 2022 con il trasferimento della produzione nelle altre sedi a Bergamo, in Spagna e in Romania. E così gli operai hanno scelto di fare picchetto permanente. “Sovraccapacità produttiva”, si è giustificata la proprietà. “Ottimizzano i costi sulla pelle dei lavoratori”, hanno denunciato invece i sindacati. Nei fatti la delocalizzazione, oltre a disperdere professionalità e competenze, lascia a casa senza stipendio 220 persone, in gran parte donne. Quest’ultime infatti compongono l’80% della forza lavoro, in un territorio che non offre molte alternative e che è reduce della crisi della Saeco di 6 anni fa, quando Philips dichiarò 243 esuberi.
Le due vicende sono strettamente collegate, perché la Saga Coffee è frutto della cessione della Saeco Professional, venduta da Philips al gruppo Evoca (insieme al brand Gaggia) nel 2017. “Nel 2002 in Saeco eravamo 1500 dipendenti. Altri 1500 lavoravano per Saeco e ci davano una mano a fare le macchine per il caffè. Oggi, nel 2021, sono rimasti 300 dipendenti. In vent’anni abbiamo dato più del sangue”. Rudi Pesci è il delegato della Fim-Cisl che il 4 novembre, dopo il primo incontro con l’azienda, ha chiesto ai colleghi di abbandonare il lavoro, uscire e organizzarsi in presidio. Ha portato il camper con cui andava in vacanza con la famiglia e l’ha parcheggiato davanti ai cancelli per impedire ai camion di entrare o uscire dallo stabilimento. Lo aveva già fatto nel 2016, davanti alla Saeco: “Ormai qui tutti sanno che quando comincio a girare con il camper c’è qualcosa che non va”, scherza. Oltre al suo, ci sono un altro camper donato dallo Spi-Cgil, una roulotte adattata a ufficio sindacale, un tendone della protezione civile con i tavoli e le scorte di cibo e due gazebo, il più piccolo montato accanto a una stufa per scaldarsi. Il turno più duro è quello della notte, quando le temperature scendono sotto lo zero. “Si riposa, ma non si dorme”. E proprio a causa delle condizioni climatiche sempre più difficili a dicembre verranno ridotte le ore di presidio notturne.
Strette su una panca, con la sciarpa tirata su fino agli occhi, i guanti e il berretto calato in testa, è quasi impossibile riconoscere le lavoratrici. Un esercizio di resistenza fisica e mentale, un sacrificio collettivo di un gruppo che qui si è fatto comunità. “Sono alla Saga Coffee dal 1996, ho 45 anni e prospettive per me non ce ne sono” racconta la delegata della Fiom, Laura Borelli. Anche lei, nel 2015, partecipò in solidarietà al presidio organizzato al vicino stabilimento della Saeco, dove lavorava suo marito. “Questa volta mi colpisce di più, perché a rischio c’è il mio posto di lavoro. Devo lottare per la mia dignità”. Come lei, altre decine di dipendenti hanno più di 20 anni di lavoro alle spalle. “Per una donna avere un impiego significa anche essere indipendente, autonoma e poter aiutare la famiglia – dice Giuseppina Mangone, sempre della Fiom – Perderlo significa non essere più niente, vuol dire essere un numero”.
“Le partigiane del 21esimo secolo” le definisce Primo Sacchetti, funzionario della Fiom-Cgil di Bologna. “Qui stiamo assistendo all’ennesima delocalizzazione, che si va ad aggiungere alla Whirlpool, alla Gkn e all’Embraco. La lista è lunghissima. E finché non si colma il vuoto normativo, costringendo le aziende a rimanere sul territorio, questo problema non si risolverà mai”. La speranza dei sindacati è quella di poter mandare a casa i lavoratori per le feste natalizie. Al tavolo in Regione del 23 novembre, infatti, è emerso il nome di un imprenditore lombardo pronto a valutare una proposta di reindustrializzazione. In questi giorni dovrebbe parlarne con l’assessore regionale Vincenzo Colla. Un primo segnale, ma non basta. “Le nostre condizioni sono chiare: tutte le 220 persone devono rientrare a lavorare” spiega Salvatore Parlato della Fim-Cisl “E rimarremo qui davanti fino a quando non ci sarà data questa garanzia”