“Il futuro un po’ mi preoccupa, con i 40 anni è arrivata un po’ d’ansia”. Zlatan Ibrahimovic, 31 trofei alzati in carriera e 11 scudetti (ma per lui sono 13), ha scritto un libro con Luigi Garlando: “Adrenalina“. In occasione della pubblicazione, ha rilasciato un lunga intervista al Corriere della Sera in cui racconta tutto. Dall’infanzia nel ghetto musulmano di Malmoe alla timidezza con le ragazze fino al rapporto con Luciano Moggi e l’aneddoto su Silvio Berlusconi. Così si delinea il profilo di una persona che dice di aver sempre sofferto nella vita. La storia di un uomo che ha imparato a vivere dell’odio degli altri e a trasformare gli insulti in energia. Lui questo sentimento non lo conosce: “L’odio è troppo impegnativo“.
Ibrahimovic parla almeno sei lingue, ma in campo pensa in slavo: “Perché serve cattiveria”. Un sentimento che gli serve per affrontare quella degli altri, in un mondo in cui è sempre stato il diverso. “Mia madre è croata e cattolica, mio padre bosniaco e musulmano. Sono svedese, ma sono anche un mix”, così può dire che non crede in Dio ma crede solo in Zlatan. Ripensando alla sua infanzia dice: “Ero un bambino che ha sempre sofferto. Appena nato, l’infermiera mi ha fatto cadere da un metro d’altezza. Io ho sofferto per tutta la vita. A scuola ero diverso: gli altri erano biondi con gli occhi chiari e il naso sottile, io scuro, bruno, con il naso grande. Parlavo in modo diverso da loro, mi muovevo in modo diverso da loro. I genitori dei miei compagni fecero una petizione per cacciarmi dalla squadra. Sono sempre stato odiato. E all’inizio reagivo male”. Non con le testate ma con l’isolamento. Perché quando lo stadio gli urlava “zingaro” o Sinisa Mihajlovic lo provocava con insulti in serbo-croato, lui si gasava: quella era benzina per il gioco.
E tutti questi insulti rimandano alle sue origini, ai Balcani e alla ex-Jugoslavia, paese da cui i suoi genitori sono scappati per la guerra, come racconta ad Aldo Cazzullo: “Mio padre ne soffriva tantissimo. Ogni giorno arrivava la notizia della morte di una persona che conosceva. Lui aiutava i rifugiati. Però cercava di tenermi al riparo. Ha sempre tentato di proteggermi. Quando morì sua sorella, in Svezia, non mi lasciò andare all’obitorio. Però, quando è morto mio fratello Sapko, di leucemia, io c’ero. E mio fratello mi ha aspettato, ha smesso di respirare davanti a me. L’abbiamo sepolto con il rito musulmano. Papà non ha messo una lacrima. Il giorno dopo è andato al cimitero e ha pianto dal mattino alla sera. Da solo”.
A salvarlo da una vita di sofferenze non è stata la sorte (“non sopporto quando mi dicono buona fortuna”) ma il lavoro duro e continuo e la disciplina che proprio il padre gli ha dato. Per questo aveva paura di lui e si svegliò prestissimo tante mattine di fila quando era in Svezia per trovare e strappare la lettera della polizia che lo aveva beccato a rubare in un centro commerciale: “Se l’avesse trovata lui adesso non sarei qui a raccontarlo”, dice. Un’esperienza che lo ha formato come un leader, una persona che ha sempre da dire la sua- come quando appena arrivato al Paris Saint-Germain disse ai media che “la Francia era un paese di merda“- e che proprio per questo ad esempio non va a cena con i compagni di quadra: “Li metterei in imbarazzo – dice – io sono un leader. Sarebbero a disagio”. Zlatan che impara dagli errori, come con le ragazze, o da personaggi granitici che “incutono soggezione, anche se non a me” come Luciano Moggi, Fabio Capello o Silvio Berlusconi.
“Gli scudetti di Calciopoli li abbiamo vinti e nessuno può cancellare il sudore, la fatica, la sofferenza, gli infortuni, i gol. Per questo, quando dicono che in carriera ho vinto undici scudetti, li correggo: sono tredici. Moggi era uno che incuteva soggezione, anche se non a me. Come Berlusconi: troppo simpatico. Una domenica sono in tribuna a San Siro, mi fa sedere accanto a lui. Poi mi fa: “Ibra, ti dispiace scalare di un posto? Sta venendo una persona molto importante”. Io scalo, scala anche Galliani. Penso che stia arrivando un politico. Invece arriva una donna bellissima, su tacchi impressionanti. Berlusconi mi strizza l’occhio”.
Per farsi strada in questo mondo, dove ci sono difensori duri come Chiellini e cattivi senza ragione come Materazzi, non basta il fisco ma ci vuole anche un compagno di avventure. Se nella vita è Helena, dieci anni in più di lui, compagna stabile dai tempi di Torino e madre dei suoi due figli Maxi e Vincent, a lavoro è Mino Raiola. “I procuratori tutelano i calciatori” e per lui Raiola è “amico, fratello e padre”. Come quando lo protesse dagli “avvoltoi” che dopo l’infortunio al ginocchio a Manchester pensavano che la carriera di Ibra fosse terminata e in pochi giorni lo portò dal miglior specialista al mondo, il dottor Freddie Fu di Pittsburgh, che li accolse in via eccezionale alle 4 di mattina. Perché Ibrahimovic è nato per giocare a calcio. Da bambino provava a imitare Ronaldo il fenomeno (“il più forte di sempre”) e se stava per andare al Napoli era solo per ricalcare le orme del mito Diego Armando Maradona: “Volevo andare a Napoli e fare come lui: vincere lo scudetto. Era tutto fatto, ma poi De Laurentis cacciò Ancelotti. Allora chiesi a Mino Raiola quale fosse la squadra che potevo risollevare, e lui mi disse: ‘il Milan ha appena perso 5-0 a Bergamo‘. Allora è deciso”.
Così Ibrahimovic vive ancora di calcio, ma il gol in rovesciata da metà campo contro l’Inghilterra: “il gol più bello, gli inglesi mi hanno sempre disprezzato, dicevano che contro di loro non segnavo mai” non è l’emozione più grande della sua vita. “Ero in ritiro con la nazionale quando mio figlio Maxi mi disse: ‘Papà mi manchi’. Una coltellata, volevo lasciare tutto, anche il Milan, e tornare da lui”. A 40 anni ha ancora dei conti aperti, come quello con Lukaku per cui dopo lo scontro nel derby del gennaio 2021 è convinto che il belga gli abbia mandato una maledizione, ma solo in campo. Fuori dal campo nessun conto in sospeso, solo un po’ di paura per il futuro. Ad Aldo Cazzullo che gli dice che da vicino è un buon uomo, risponde: “Sono buono perché da un’ora stiamo chiacchierando. Se lei fosse sul campo, la sbranerei”.