Confesso di non ricordare quante volte, nel mio percorso di formazione, ho dovuto studiare i sette re di Roma, di cui ricordo ancora i nomi in sequenza, e le Guerre Puniche. Non credo di avere una “buona cultura” perché so queste cose. Ricordo che al liceo, nel periodo della contestazione, criticai, nel giornalino di classe (si chiamava “Tu che ne pensi?”), il modo in cui ci veniva presentata la “cultura”.
Sapevamo tutto della “cultura occidentale” e niente di quello che era avvenuto in Asia, in America, e non parliamo dell’Africa o dell’Oceania. Scrissi che questa impostazione generava una sensazione di superiorità da parte nostra: noi abbiamo costruito la cultura, “loro” no. Non mi pare che mi abbiano raccontato quando, in Europa, abbiamo adottato la numerazione araba (che poi era indiana), abbandonando quella romana. Una svolta epocale, che cambiò la nostra rappresentazione del mondo. Le svolte erano la fondazione di Roma, la nascita di Cristo, la caduta dell’impero romano, la scoperta dell’America, la rivoluzione Francese, l’Unità d’Italia. Una rappresentazione che non mi convinceva: a casa c’erano libri che raccontavano altre storie. A me piaceva la storia naturale, assieme a quella dei sette re di Roma.
Come tutti i giovani esemplari della nostra specie ero attirato dalle cose di natura. Edward O. Wilson la chiama Biofilia. Conoscevo molti animali ancor prima di aver imparato a leggere, e ho imparato a leggere decifrando i nomi sotto le illustrazioni che li raffiguravano. Li sapevo tutti: oritteropo, ornitorinco, fennec, aye aye, galagone, squalo bianco, verdesca, balena, balenottera, capodoglio, e infiniti altri. Non facevo alcuna fatica ad impararli, e associavo quei nomi al loro comportamento e ruolo ecologico. Che io sapessi quelle cose non aveva alcuna utilità nelle valutazioni del mio apprendimento a scuola. I sette re di Roma sì, la biodiversità no. Sapevo anche il continente in cui vivono i vari animali, e quindi la biogeografia. Sapevo che lo struzzo è in Africa, il casuario in Oceania e il nandù in Sud America. Il giaguaro in sud America, il leopardo in Africa e Asia. E poi le barriere coralline, sempre sul lato orientale dei continenti.
A scuola non mi raccontavano queste cose. Dovevo imparare le dimostrazioni dei teoremi, la provvidenza del Manzoni, e i cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar. E poi i gas perfetti, i piani senza attrito. Tutti concetti molto astratti, mentre il mondo che mi circondava (e mi circonda) non c’era. La geografia erano le capitali, e chi ha il fiume più lungo. Di ecologia neanche a parlarne.
Il risultato di questa impostazione? Ora dobbiamo fare la transizione ecologica! Il motivo è che abbiamo rovinato la casa comune perché non la ritenevamo importante: ci siamo messi al centro di tutto, pensando che tutto fosse lì perché noi ne potessimo usufruire. Un capriccio infantile. Ma come si fa ad attuare la transizione ecologica se non si conosce l’ecologia? Francesco, con Laudato Si‘, chiede la conversione ecologica. In effetti, prima della transizione ci vuole la conversione. Ma la conversione ci permette solo di capire che l’ecologia è importante, non ci fornisce la conoscenza della struttura (la biodiversità) e della funzione degli ecosistemi. Queste cose si imparano studiando, sperimentando.
Il ministro della Transizione Ecologica dice che nei percorsi di formazione ci vuole più conoscenza tecnica. Ma la tecnica si basa sulla scienza. E ancora una volta mi trovo a ricordare che per la transizione ecologica bisogna conoscere l’ecologia. Non basta la tecnica.
In tutto il mondo gli ecosistemi funzionano nello stesso modo e gli organismi, a seconda delle specie, svolgono gli stessi ruoli. La distribuzione della biodiversità non riconosce confini politici, ma solo confini all’interno dei quali le specie trovano condizioni adatte alle loro esigenze. Gli ecosistemi funzionavano benissimo prima del nostro arrivo, cambiando al cambiare delle condizioni, con l’evoluzione della biodiversità. Il nostro agire li sta rendendo inospitali proprio per noi: il nostro successo sta asfaltando la strada verso il nostro insuccesso, preparando la strada per chi verrà dopo di noi.
L’istinto di conservazione, assieme all’intelligenza che abbiamo evoluto, dovrebbe spingerci a cambiare strada, nel nostro interesse. La transizione ecologica è una forma di evoluzione verso la sopravvivenza, che mette assieme la scienza e la tecnologia.
A quanto pare, però, stiamo resistendo alla transizione ecologica, visto che nei nostri programmi di “sviluppo” pensiamo che abbia la finalità di far aumentare il Pil. E stiamo considerando la transizione tecnologica come sinonimo di transizione ecologica.
Manca la cultura. O, meglio, alla cultura dominante manca un pezzo: abbiamo sviluppato una cultura in cui la natura non trova posto. Capiamo di aver sbagliato a non considerarla, ma poi perseveriamo nell’errore e “facciamo solo finta” di considerarla. Diamo una patina di verde sulle nostre attività (il lavaggio verde del greenwashing) ma poi siamo sempre attaccati alla crescita del Pil. Siamo prigionieri del comma 22: come facciamo a imparare l’ecologia se non abbiamo l’opportunità di impararla, visto che a scuola non si insegna? Non ditemi che c’è l’educazione civica, non basta. Non per la svolta epocale che diciamo di voler attuare.