L'udienza finale che chiude i lavori della commissione parlamentare d'inchiesta ha visto l'approvazione all'unanimità della relazione prodotta in due anni di lavori. Pur mettendo in chiaro che i responsabili dell'uccisione del ricercatore di Fiumicello si trovano al Cairo, escludendo anche la pista dei servizi segreti stranieri, i membri sostengono che il processo di riavvicinamento tra Roma e al-Sisi è stato evidente, anche dal punto di vista commerciale, nonostante il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, lo abbia negato proprio nella sua audizione
È stato un omicidio organizzato e commesso coscientemente, dopo giorni di interrogatori e torture, dagli apparati della Sicurezza egiziana. Per questo motivo, nonostante le dichiarazioni contrarie da parte del governo italiano, si chiede che Roma metta fine al processo di normalizzazione dei rapporti tra Italia ed Egitto. Sono queste le principali conclusioni alle quali è arrivata la commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni contenute nella relazione conclusiva del gruppo presieduto dal deputato di LeU Erasmo Palazzotto scritta al termine dei due anni di lavori e approvata all’unanimità nell’udienza di stamattina.
Il documento esordisce mettendo immediatamente in chiaro che le conclusioni alle quali il gruppo di parlamentari è arrivato si allineano a quelle emerse dalle indagini della Procura di Roma che ha ottenuto il rinvio a giudizio per quattro agenti della National security Agency del Cairo: “La responsabilità del sequestro, della tortura e dell’uccisione di Giulio Regeni grava direttamente sugli apparati di sicurezza della Repubblica araba d’Egitto – si legge – e in particolare su ufficiali della National Security Agency (Nsa)”. Ma la responsabilità, spiegano, non è limitata ai membri della Sicurezza, visto che la mancata collaborazione emersa negli ultimi anni, i depistaggi, e soprattutto le tutele riservate agli imputati nel processo italiano sono la prova di un coinvolgimento del regime e delle istituzioni del Paese nordafricano: “La mancata comunicazione da parte egiziana del domicilio degli imputati, nonostante gli sforzi diplomatici profusi al fine di conseguirla, non si risolve nella mera fuga dal processo, ma sembra costituire una vera e propria ammissione di colpevolezza da parte di un regime che sembra aver considerato la cooperazione giudiziaria alla stregua di uno strumento dilatorio finalizzato a recuperare il precedente livello delle relazioni bilaterali, e non certo la via maestra per assicurare alla giustizia gli assassini di Giulio Regeni”.
L’ostruzionismo del Cairo, nonostante le dichiarazioni di alcuni esponenti politici italiani che al tempo ricoprivano ruoli di governo, come ad esempio quelle di Matteo Renzi proprio in sede di commissione d’inchiesta, è evidente mettendo in fila tutti gli ostacoli che l’Egitto ha volutamente posizionato sulla strada degli inquirenti romani. Ci sono le mancate risposte alla maggior parte delle rogatorie italiane, un atteggiamento che non può essere semplicemente giustificato con la mancanza di un accordo bilaterale in materia giudiziaria, i video manomessi della metropolitana del Cairo nei minuti in cui è avvenuto il rapimento di Regeni, il “penetrante controllo degli omologhi egiziani” sugli investigatori italiani giunti in Egitto che hanno reso “la loro compresenza alle indagini poco più di un’operazione di facciata”, senza dimenticare i quattro tentativi di depistaggio, uno dei quali, quello relativo all’omicidio commesso da una banda di rapinatori, rimane la tesi spinta ancora dalla magistratura egiziana per spiegare l’accaduto, nonostante la ricostruzione sia stata ampiamente smontata. Una cooperazione che invece c’è stata, sostiene la commissione parlamentare d’inchiesta, da parte delle istituzioni britanniche e dell’università di Cambridge, per la quale il giovane di Fiumicello stava portando avanti la ricerca, compresa la sua tutor, la professoressa Maha Abdelrahman.
A questa opposizione evidente del regime egiziano allo svolgimento delle indagini, prima, e del processo italiano, adesso, non corrisponde però una sufficiente pressione diplomatica da parte dell’Italia. La commissione sostiene che, nonostante le affermazioni di diversi esponenti dell’esecutivo, uno su tutti il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che lo ha ripetuto anche in audizione, a partire dal 2018, dopo il rientro dell’ambasciatore italiano, la normalizzazione c’è stata eccome: “L’esercizio della pressione diplomatica, anche a livello europeo, resta la più efficace risorsa a disposizione del Governo – scrivono – Lo ha dimostrato, a suo tempo, l’esperienza del richiamo a Roma dell’allora ambasciatore al Cairo. La Commissione ha potuto però accertare come, a partire dal 2018, le relazioni bilaterali tra i due Paesi abbiano subito una nuova evoluzione iniziando un lento processo di normalizzazione testimoniato dalla ripresa di visite ad alto livello che seppur caratterizzate dalla richiesta di cooperazione sulla ricerca di verità e giustizia hanno ingenerato un equivoco destinato a segnare una soluzione di continuità gravida di conseguenze per gli sviluppi
del caso Regeni. Se dalla parte italiana la ripresa dei contatti ad alto livello era intesa come ulteriore forma di sensibilizzazione della leadership egiziana alla soluzione del caso nell’auspicio di un rinnovato partenariato strategico, nella controparte si è invece ingenerata l’opinione che la questione fosse chiusa o almeno confinata ad una dimensione laterale, consentendo di tornare al business as usual”. E il business è ripreso, soprattutto in materia di commercio di armamenti, sia per quanto riguarda l’interscambio esorbitante di armi leggere in quegli anni che, come rivelato in esclusiva dal Fatto Quotidiano, sulla vendita delle due fregate Freem alla Marina egiziana a costi decisamente vantaggiosi per Il Cairo.
C’è da dire comunque, sottolineano, che in riferimento alla solidarietà sul piano internazionale non si può non denunciare il sostanziale isolamento dell’Italia: sia da parte del Regno Unito, dove il giovane studiava, che da parte dell’Unione europea e delle Nazioni Unite che si sono tutti limitati a “dichiarazioni di principio francamente insoddisfacenti”. Per questo la commissione “ritiene non più procrastinabile, da parte italiana, assumere in sede europea una posizione più assertiva e rivendicativa, anche facendo leva sulle dichiarazioni molto esplicite votate dal Parlamento europeo a sostegno della causa della verità e della giustizia per Giulio Regeni. La commissione ritiene tuttavia che vi siano ancora ampi margini da utilizzare, ivi incluso il Consiglio europeo, per accrescere l’assertività della posizione italiana e rivendicare l’effettiva solidarietà degli Stati membri”.
La commissione si è poi concentrata anche sul movente che ha spinto gli apparati egiziani a sequestrare e uccidere Giulio Regeni. Tutto va ricondotto, dicono, alle ricerche sui sindacati degli ambulanti che stava svolgendo. Ma da solo il tema non giustifica un’azione così decisa da parte della Nsa, per questo si ipotizza che la delazione da parte del capo degli ambulanti, Mohammed Abdallah, già in contatto con i servizi del Cairo, sia risultata decisiva per mettere sotto osservazione Regeni, fino al sequestro. Un epilogo legato, dicono, alla probabile “aspirazione ad una ricompensa da parte del sindacalista e l’aspirazione a fare carriera di un’unità della National Security desiderosa di recuperare nel nuovo regime il terreno perduto in termini di influenza politica rispetto all’epoca di Mubarak“.
Se le responsabilità sono tutte da ricercare nell’operato della Sicurezza e del regime, la commissione sostiene che dinamica e tempistiche del ritrovamento del corpo, posizionato non lontano da una sede degli apparati e durante una visita istituzionale dell’ex ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, non possono essere considerate casuali. Ma se la tesi di un’azione mossa da servizi segreti di Paesi stranieri, intenzionati a creare una rottura nei rapporti tra Italia ed Egitto, non è stata provata, si ritiene che, “in via di ipotesi, non è tuttavia possibile escludere del tutto che, ad un certo stadio della vicenda stessa, l’esito finale possa essere stato determinato da frange interne al regime portatrici di interessi ostili all’Italia“.