Società

Linee guida Ue: perché il linguaggio politicamente corretto dà fastidio

Qualche giorno fa, le linee guida proposte della commissaria europea alla Parità, Helena Dalli, per rendere più inclusivo l’inglese parlato e scritto dalla Commissione, hanno suscitato all’istante polemiche e reazioni infastidite. Al punto che, il giorno dopo, la stessa commissaria ha ritirato il documento (un pdf di 32 pagine), riconoscendo che non fosse maturo e bisognasse lavorarci di più.

Le polemiche, dato il periodo prenatalizio, si sono concentrate sulla raccomandazione di non augurare “buon Natale”, che ha senso solo per il cristianesimo, dicendo invece “buone vacanze”, per rispettare (e non far sentire escluse) tutte le religioni. Ma il documento contiene molte altre raccomandazioni, volte a evitare un po’ tutte le discriminazioni sociali: nei confronti delle donne, di persone Lgbtq+, di etnie diverse dalla caucasica, di religioni che non siano il cristianesimo, di persone con disabilità, o discriminate per l’età (anziani/e, ma anche giovani). E infatti qualcuno si è infastidito pure per l’attenzione alle donne e ai diversi orientamenti sessuali.

Per chi come me lavora da anni su comunicazione, linguaggio e segni, non c’è niente di nuovo sotto il sole. Da sempre, infatti, combattere le discriminazioni partendo dalla lingua suscita discussioni, se non addirittura fastidio o repulsione. Chi fa politica in diversi modi e ambiti, dall’Europa ai governi nazionali fino alle più piccole amministrazioni locali, dovrebbe saperlo e anticipare strategie che non siano ritirare tutto. Provo a riassumere i motivi delle più frequenti reazioni negative.

1. Il benaltrismo. In generale, è l’atteggiamento di chi elude una questione sostenendo che ce ne sono “ben altre” – e più importanti – da affrontare. In particolare, è l’idea che l’attenzione alle parole sia sempre irrilevante, una mera perdita di tempo. In realtà senza una lingua, la nostra lingua madre, non potremmo neanche pensare, né organizzare l’esperienza e la nostra vita.

2. Parlo, dunque non vedo il problema. Il motivo di base per cui moltissime persone considerano irrilevanti le questioni linguistiche è che tutti, bene o male, parliamo fin dalla più tenera età, e scriviamo (in media con più fatica, ma facciamo anche quello) da quando avevamo cinque o sei anni. Perciò lo diamo per scontato, non ci facciamo caso e ci sembra una perdita di tempo farci attenzione. È come la storia del pesce che incontra due pesci e chiede loro: «Com’è l’acqua oggi?». E i due: «Acqua? Che cos’è l’acqua?».

3. Parlo, dunque so. È la posizione di chi, poiché parla e scrive dall’infanzia, crede di sapere tutto e di poter avere l’ultima parola su qualunque questione linguistica. Se al suo orecchio suona strano o fastidioso l’uso del femminile per professioni come “avvocata”, “assessora”, “carpentiera” eccetera, vuol dire che è sbagliato usarle. Punto. Se non vede nessun problema nel dire “buon Natale” a persone che non sono cristiane, perché “nessuno vuole offenderle”, vuol dire che il problema non c’è. Punto.

4. L’imposizione dall’alto. È la posizione di chi vive ogni raccomandazione e suggerimento sulla lingua come un’imposizione, una legge insopportabilmente calata dall’alto, o un divieto se qualcosa è sconsigliato. Perciò non ascolta e non legge nemmeno le motivazioni: dice no e basta. Perché «la lingua è mia e comando io: mi si vuole togliere la libertà pure quando parlo?».

5. L’ipocrisia. È la posizione di chi mette tutto ciò nel novero del “politicamente corretto”, e lo qualifica come un parlare fasullo, ipocrita, in quanto non spontaneo, ma regolamentato dall’alto. Ora, è vero che alcuni/e usano in modo forzato e fasullo il politicamente corretto, solo per darsi una patina “progressista” e “innovativa”, senza esserlo. Ma questo non vuol dire che lo sforzo di essere inclusivi con certe attenzioni linguistiche sia per forza ipocrita. Come dire che fare le condoglianze sia per forza ipocrita solo perché ci hanno insegnato a farlo quando a qualche amico/a o conoscente muore una persona cara. C’è sicuramente chi fa le condoglianze solo come formalità, senza provare reale empatia, ma dovremmo smettere di farle per questo?

6. I contenuti: chi discrimina e lo sa. Ci sono poi coloro che se la prendono col politicamente corretto proprio perché non condividono affatto i contenuti delle sue motivazioni. Non sopportano l’attenzione all’uso del femminile per includere le donne, perché «basta con questo femminismo, che ha rovinato il mondo». Non sopportano l’attenzione ai diversi orientamenti sessuali perché «in famiglia c’è il padre e la madre, non genitore 1 e 2». Non vogliono una società multietnica perché «lo sanno tutti che aumenta la criminalità». E così via. Non vogliono una società multireligiosa perché «avete visto come i musulmani trattano le donne?» (detto da chi è ben felice che sua moglie non lavori, ma stia in casa a tenere i bambini e fare le faccende domestiche).

7. I contenuti: chi discrimina senza volerlo. Infine ci sono quelli e quelle che mal sopportano il politicamente corretto perché «io dico ‘frocio’, sì, ma ho tanti amici gay», «per me uomini e donne sono alla pari, ma ‘avvocata’ non si può sentire», «io rispetto i musulmani, ma nessuno mi tocchi il Natale, eh!». E così via.

A cosa serve questa lista? A far riflettere qualcuno – spero – se si ritrova in una o più di queste posizioni (che spesso si sommano o si mescolano) e magari prova a vedere con un’altra luce tutti gli sforzi di usare la lingua in modo più inclusivo e meno discriminatorio. Ma anche a chi scrive raccomandazioni come quelle della commissaria europea Helena Dalli, perché ce ne sono tante ormai, in Italia, in Europa e nel mondo: nelle pubbliche amministrazioni, nelle aziende, nelle università, nelle scuole, nelle case editrici. Occorre insistere, migliorarle, sentire il parere di linguisti/e, adeguarle agli usi effettivi, moltiplicarle, diffonderle.

I cambiamenti linguistici sono lenti, imperfetti, graduali. E non avvengono per imposizioni dall’alto. Ma nemmeno le raccomandazioni della Commissione europea vengono “dall’alto”, perché riprendono dieci, cento, mille altre raccomandazioni già scritte, discusse e diffuse da anni. Fra mille polemiche e contestazioni, ovviamente. La commissaria le riproporrà. Altre raccomandazioni verranno. E le polemiche torneranno, puntuali. Finché, nel tempo, si placheranno.