di Sofia Basso – Unità investigativa Greenpeace Italia
Le fonti fossili non sono soltanto all’origine di inquinamento e cambiamenti climatici, ma anche dei conflitti in molte aree del mondo. Gli studi accademici non hanno ancora raggiunto l’unanimità sul tema, ma una netta maggioranza riconosce che petrolio e gas sono “spesso una causa che contribuisce all’insorgenza dei moderni conflitti internazionali”.
Tra i casi più recenti citati dagli specialisti spiccano il conflitto russo-ucraino, le tensioni nel Mediterraneo orientale e la competizione nel Mar cinese meridionale. In particolare, nell’articolo Fueling the fire: pathways from oil to wars (2013), Jeff D. Colgan, professore alla Brown University, ha calcolato che circa metà delle guerre esplose dopo il 1973 ha un legame con il petrolio. Ovviamente non si tratta solo della classica invasione militare per impossessarsi delle fonti energetiche di un altro Paese. I meccanismi causali identificati dagli accademici sono più articolati. Oltre alle “resources wars”, in cui il petrolio e il gas sono l’incentivo per conquiste territoriali, Colgan suggerisce di guardare anche alla “proprietà e struttura del mercato”: secondo questa interpretazione, la coalizione internazionale intervenuta in risposta all’invasione irachena del Kuwait puntava ad evitare scossoni al mercato petrolifero, più che alla conquista di nuove riserve fossili.
Sull’insorgenza dei conflitti pesano anche le “politiche dei produttori”: i proventi petroliferi possono aumentare l’arbitrio dei governi, moltiplicando il rischio di scontri con i Paesi vicini. I numeri, del resto, parlano chiaro: i “Petrostati” sono coinvolti in dispute armate interstatali il 30 per cento in più degli altri Paesi – tasso che sale addirittura al 250 per cento nel caso degli Stati petroliferi rivoluzionari. È la cosiddetta “maledizione delle risorse” (resource curse), ovvero quel paradosso per cui, invece di rafforzare l’economia e la democrazia di un Paese, la ricchezza energetica può favorire sistemi autoritari. Un’altra variabile che collega le fonti fossili ai conflitti sono le “preoccupazioni dei consumatori” per l’accesso all’approvvigionamento energetico, come dimostrano le tensioni nello stretto di Hormuz. “Nessun altro bene ha un tale impatto sulla sicurezza internazionale”, conclude Colgan.
Nell’articolo Energy, conflict and war: towards a conceptual framework (2014), André Månsson della Lund University suddivide i conflitti a seconda se l’energia ne sia l’obiettivo (quando lo scopo della guerra è assicurarsi il controllo delle fonti fossili), la causa (quando il conflitto è sovvenzionato dai profitti petroliferi o scatenato dal degrado ambientale legato all’attività estrattiva), oppure il mezzo (quando l’energia è usata come arma, dalle deliberate riduzioni dei flussi di gas e di petrolio agli attacchi a pozzi e giacimenti). Il case-study della ricerca è l’annessione russa della Crimea, che ha fornito a Mosca il controllo sulle risorse energetiche offshore della Crimea. Ma sono tante le guerre che si rivelano “energy wars”.
In Twenty-first century energy wars: how oil and gas are fuelling global conflicts (2014), Michael T. Klare, professore all’Hampshire College, collega quattro recenti conflitti alle fonti fossili. La sua analisi inizia con la guerra internazionale contro l’Isis, perché senza i proventi petroliferi la formazione terroristica “non avrebbe mai potuto sperare di realizzare i suoi ambiziosi obiettivi”, poi si sposta sul conflitto russo-ucraino: uno scontro che ha riguardato l’identità nazionale ma “anche la questione energetica”. Ci sono poi la guerra nel Sud del Sudan, Paese in conflitto con il Nord per il controllo delle risorse energetiche, e la tensione nei mari della Cina orientale e meridionale, dove Pechino contende ai vicini isole e atolli ricchi di risorse fossili. Per dirla con Klare: “Un giorno forse lo sviluppo di fonti di energia rinnovabili potrebbe invalidare questo detto. Ma nel mondo attuale, se scoppia un conflitto, cercate la questione energetica”.
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