Le regole sono il pilastro per la ricerca dell’equilibrio nella società civile. Se non stabilisci un precetto, una direttiva, una legge, alcuni comportamenti vengono ignorati dai cittadini. Bisogna chiedersi perché alcune di queste regole vengano rispettate e altre no.
Un caso limite, presupposto dal decreto legislativo 231/2001, è rappresentato da quei comportamenti previsti come reati che, difatti, possono far sorgere la responsabilità dell’impresa. Il decreto legislativo 231/2001 disciplina la responsabilità “amministrativa” delle società. In altri termini, nel caso in cui un dipendente o un amministratore compia, nello svolgimento delle sue funzioni, un reato previsto dal Decreto, vengono previste delle sanzioni di carattere amministrativo, ancorché disposte dal giudice penale, anche per l’azienda nel caso in cui la stessa non abbia adottato procedure e protocolli di comportamento previsti da un “modello organizzativo”- appositamente redatto sulle caratteristiche della stessa – che la esoneri dalle responsabilità. Ma gli imprenditori, soprattutto al Sud, con una magistratura ancora latitante, sembrano non percepire gli effetti sulla gestione dell’azienda derivanti dall’implementazione di un modello organizzativo, soprattutto per il fatto che non è obbligatorio!
“Se al momento non è obbligatorio, perché dovrei farlo?”, la tipica domanda che mi viene posta. Una reazione associata al fatto che, così come evidenziato in molti casi pratici, il timore della sanzione viene spesso percepito come qualcosa di distante dalla propria attività imprenditoriale, come un qualcosa, anche influenzati dalla scaramanzia, che può capitare solo agli altri. Ma forse da mercoledì qualcosa è cambiato!
Nel decreto legislativo 184/2021 è stato esteso il catalogo dei reati presupposto alla responsabilità degli enti, ex decreto legislativo 231/2001. In particolare è stato introdotto l’articolo 493-ter c.p. che condanna “l’indebito utilizzo (da parte del non titolare) di carte di credito e di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro. In caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per il delitto di cui al primo comma, è ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché del profitto o del prodotto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile, la confisca di beni, somme di denaro e altre utilità di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto”.
Si tratta di fattispecie che nella mia esperienza di consulente di direzione aziendale ho visto commettere, inconsapevolmente finora, da tantissimi piccoli imprenditori. Comportamenti che finora avevano un impatto (e anche la mia attenzione, a essere sinceri) solo dal punto di vista della confusione (eufemismo) nel controllo di gestione economico e finanziario; nel mentre i legali che collaborano con me ne sottolineavano la rilevanza giuridica. Quante volte ho visto utilizzare la carta di credito o di debito dal socio di una piccola impresa per mettere la benzina nella barca. Ma da ora, molto più di prima, sono quindi necessarie per la sopravvivenza e la reputazione dell’azienda alcune accortezze fondamentali che deve prendere per primo l’imprenditore.
La prima cosa che deve fare è capire che il bilancio dell’azienda e il bilancio familiare dei singoli soci sono due cose differenti. Nelle imprese familiari si commette sistematicamente l’errore di non ripartire gli eventuali utili alla fine dell’esercizio, ma di considerare gli stessi come degli anticipi sui probabili redditi. La maggior parte dei piccoli imprenditori (frequentemente nelle imprese familiari), infatti, ha la percezione che la finanza di un’azienda altro non sia che un cassetto dal quale attingere soldi per fini personali: pagare la retta scolastica dei figli, mettere la benzina all’auto o comprare il regalo per il matrimonio di un parente.
Dovrebbe essere norma che solo al 31 dicembre di ogni anno un imprenditore possa sapere se ha realizzato utili o perdite. E solo a quel punto possa capire quanto spendere per le proprie esigenze personali oppure quanti soldi debba mettere, nel caso sia andato in perdita, di tasca propria per ripristinare il capitale. Quelli familiari sono dei costi che molto spesso determinano degli scompensi finanziari e liti tra eventuali soci. Da lì, se non se ne ha consapevolezza, il default è a un passo.
Ecco il motivo per cui è necessario che tutte le piccole imprese predispongano il budget familiare che prenda in considerazione tutte le spese possibili e immaginabili cui va incontro la famiglia nel corso dell’anno: statisticamente sono i costi più difficili da tenere sotto controllo. Spesso ho avuto a che fare con imprenditori che si lamentavano di aver chiuso l’esercizio in perdita salvo “scoprire” (dopo che li avevo sottoposti alla “violenza” del bilancio familiare) che, al lordo delle spese correnti dei familiari non espresse nel bilancio aziendale, quella impresa aveva prodotto utili che erano stati “anticipati” ai singoli soci.
In secondo luogo, l’implementazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo e in tale contesto di un sistema di deleghe e procure che, oltre a rafforzare l’efficienza della struttura organizzativa, costituisce un importante presidio a tutela della commissione di reati da parte di apicali e sottoposti.
Da oggi gli imprenditori forse si renderanno conto di poter commettere anche un reato se mettono la benzina nella barca con la carta di credito aziendale, magari solo dopo che non possono uscire in gita per la confisca del carburante. Siamo all’anno zero e bisogna ripartire dalle basi per far crescere la cultura manageriale.