Uno degli argomenti che destano meno interesse nella nostra classe politica, pur essendo di fondamentale importanza, è il consumo di suolo. Normale, visto che le imprese costruttrici e di movimento terra continuano ad esercitare una forte azione di lobbying e che buona parte dei lavoratori opera all’interno di tali imprese. Bisogna pur mantenere il consenso e il potere. Eppure la stessa Ispra denuncia che la perdita di suolo si deve leggere anche come perdita di servizi ecosistemici, e quindi di salute dell’ambiente e dell’uomo che vi abita. La perdita di servizi ecosistemici può addirittura quantificarsi, può essere monetizzata: un raro caso di qualcosa che ha un prezzo ma anche un valore (ricordando Oscar Wilde). Oggi, posto che il consumo annuale di suolo è pari solo (!) a 2mq/sec., il danno per la collettività risulta pari ad un miliardo di euro all’anno. Ma l’Ispra “fa fine e non impegna.” I governi se ne fregano di quei menagramo che gli continuano a dire che così non si fa. Ed è perciò che in parlamento continua a giacere la proposta di legge per l’azzeramento di consumo di suolo che aveva come prima firmataria l’onorevole Paola Nugnes, prima di essere silurata dal M5S…
Ma torniamo proprio all’Unione Europea e a quella Decisione n. 1386/2013/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 novembre 2013, relativa anche (seppur marginalmente) al consumo di suolo. La decisione ha per pomposo titolo: “Settimo programma di azione per l’ambiente fino al 2020 – Vivere bene entro i limiti del pianeta”. Devo ammettere in tutta onestà che non avevo mai letto il documento, e vivevo nella presunzione che dettasse delle politiche stringenti in campo ambientale alle nazioni aderenti. Niente di tutto ciò. Ci sono porzioni del documento che sembrano scritte da un bimbo delle elementari, del tipo: “Nel 2050 vivremo bene nel rispetto dei limiti ecologici del nostro pianeta. Prosperità e ambiente sano saranno basati su un’economia circolare senza sprechi, in cui le risorse naturali sono gestite in modo sostenibile e la biodiversità è protetta, valorizzata e ripristinata in modo tale da rafforzare la resilienza della nostra società. La nostra crescita sarà caratterizzata da emissioni ridotte di carbonio e sarà da tempo sganciata dall’uso delle risorse, scandendo così il ritmo di una società globale sicura e sostenibile.”
E, per quanto riguarda nello specifico il consumo di suolo, l’art. 23 dell’allegato così si esprime: “Le considerazioni ambientali, inclusa la protezione delle acque e la conservazione della biodiversità, dovrebbero essere integrate nelle decisioni che riguardano la pianificazione dell’uso dei terreni in modo da renderli più sostenibili, per progredire verso il conseguimento dell’obiettivo del “consumo netto di suolo pari a zero” entro il 2050.”
Tre considerazioni. La prima è: cosa si intende per consumo di suolo? Non è detto, non c’è un glossario. Si afferma solo che “Ogni anno più di 1000 kmq di terreni vengono destinati a usi edilizi, industriali, di trasporto o ricreativi.” La seconda, conseguente alla prima, è: sono considerate consumo di suolo le cosiddette “opere pubbliche”? oppure gli hub di Amazon? oppure il solare a terra che viene ovviamente incentivato dalla stessa Unione? oppure ancora la trasformazione di boschi in agricoltura intensiva, che la nuova PAC finanzia più che in passato? La terza e ultima: e cosa succede se non si raggiunge il consumo zero entro il 2050, anche se non capiamo appunto cosa si intenda per consumo di suolo?
Insomma, Mina avrebbe detto “Parole, parole, parole”; Greta “bla bla bla”. Di concreto assolutamente nulla, un documento in cui non si comprende cosa si faccia rientrare nel consumo di suolo, e comunque privo di norme cogenti, contraddittorio al proprio interno ed in contrasto con le politiche che oggi, 2021, la stessa Unione porta avanti.
Intanto sempre l’Ispra, in un documento del 2017, ci ricorda cosa avverrà da qui al 2050: “Una valutazione degli scenari futuri di trasformazione del territorio italiano, in termini di nuovo consumo di suolo, porta a stimare, in caso di interventi normativi significativi e azioni conseguenti che possano portare a una progressiva e lineare riduzione della velocità di cambiamento dell’uso del suolo in 1.635 kmq di nuovo suolo perso tra il 2016 e il 2050, anno in cui dovremo, necessariamente, azzerare il nuovo consumo di suolo. Se, invece, mantenessimo la velocità registrata nel corso dell’ultimo anno, velocità peraltro piuttosto bassa a causa della crisi economica, perderemmo ulteriori 3.270 kmq entro il 2050. Arriveremmo a 7.285 e 8.326 kmq nel caso in cui la ripresa economica portasse di nuovo la velocità del consumo di suolo a valori medi o massimi registrati negli ultimi decenni.”
Il governo dell’ammucchiata conta sulla ripresa economica classica e quindi su un consistente consumo di suolo. Diciamo che da qui al 2050 si può ipotizzare che perderemo un territorio naturale pari alla Liguria, che è 5422 kmq. Il mai troppo rimpianto Antonio Cederna – di cui a ottobre ricorreva il centenario della nascita – ricordava nel 1975 che ci eravamo già giocati la Toscana (come area equivalente). E non parliamo di tutti i morti che il consumo di suolo comporterà, conseguenti ai dissesti idrogeologici. Ma si sa, noi ambientalisti siamo solo dei menagramo. E i morti solo effetti collaterali dello sviluppo.
P.S. proprio mentre terminavo la stesura di questo post ho avuto notizia che in data 17 novembre la Commissione Europea ha approvato la “Strategia del Suolo per il 2030″. Essa, tra le altre cose, annuncia una nuova legge sulla salute dei suoli, da approvare entro il 2023. Mi sento realistico e non una cassandra vaticinando che nulla di sostanziale cambierà. Finché non cambierà il sistema economico (e non cambierà) non ci potranno essere restrizioni, divieti che preservino Madre Terra.