La pioggia ha iniziato a cadere fitta da domenica sera. Perché subito dopo la sconfitta contro l’Inter sono venute giù parole pesanti come chicchi di grandine. Una dopo l’altra. Fino a prosciugare il vocabolario dei sinonimi. Nelle ultime ore José Mourinho è stato definito in molti modi diversi. Eppure ogni etichetta conteneva la stessa sfumatura canzonatoria. Nostalgico, bollito, finito, malinconico, superato, arrogante, anacronistico, noioso e annoiato, rottamato. Colpa di un presente non più coerente col passato. L’uomo che prima si copriva di gloria ora passa il suo tempo a masticare polvere. O almeno così suggerisce la classifica della Roma, un gruppo con un’anima di carta sempre pronta a lacerarsi, una squadra che sembra uscita da un romanzo di Volodine, che si trascina senza mai essere completamente viva e senza mai essere completamente morta. I giochi di parole sono diventati esercizio collettivo. Lo Special One è diventato un tipo anonimo, dicono. L’uomo che veniva subito dopo Dio ora ha incassato l’abiura da parte della sua stessa divinità, giurano. Il problema è che José Mourinho ha riscritto la tripartitura arbasiniana. Nella sua carriera è passato subito da “bella promessa” a “Venerato Maestro“. E adesso che la sua barca si ritrova impantanata, tutti hanno fretta di farlo rientrare nel terzo stato tratteggiato dallo scrittore di Voghera, quello di “solito stronzo”. Ogni narrazione dello stato attuale della Roma si porta dietro un peccato originale. È imbevuta di stupore, è gonfia di meraviglia. Giudica a posteriori un problema che era sembrato lampante già in presa diretta. Perché ad aprile, quando i giallorossi e Mourinho si erano scelti con reciproca soddisfazione, l’entusiasmo aveva sovrascritto la razionalità. E aveva finito per cancellare la parte più sapida della faccenda. Il dubbio era nella testa di molti, ma sulla bocca di nessuno: come poteva un club uscito da una continua opera di scarnificazione del proprio talento affidarsi a uno dei tecnici più vincenti della storia? Senza acquisti di livello, senza investimenti massicci, cosa poteva cambiare rispetto alla gestione Fonseca? La Roma che ha trovato Mourinho era una squadra con tanti fraintendimenti e pochi campioni. E così è rimasta anche dopo il mercato estivo.
I critici dicono che è stato il portoghese a telecomandare la campagna acquisti di Pinto – È una verità parziale. Perché il mercato della Roma è stato ispirato soprattutto dalla feroce necessità di potare i rami secchi. Via Florenzi, via Nzonzi, via Pastore, via Juan Jesus, via Under, via Kluivert, via Olsen, via Pau Lopez. Una lista che racconta piuttosto bene lo sperpero di quattrini che negli ultimi anni ha dissanguato le casse societarie. Quello del portiere può diventare addirittura un caso di studio. I giallorossi che nel 2018 hanno venduto Alisson per 75 milioni di euro, ne hanno spesi quasi cinquanta alla ricerca di un sostituto all’altezza. Senza mai trovarlo. E venne Pau Lopez, che sostituì Mirante (l’unico a salvarsi, fra l’altro), che prese il posto di Robin Olsen. Una filastrocca che tiene insieme due costosi flop, con lo spagnolo autore di un surreale autogol in perfetto stile Mauro Goicoechea durante il derby. Serviva una toppa. Che è stata individuata in Rui Patricio. Costo: 11 milioni. Segni particolari: stesso procuratore dello Special One. E una propensione naturale ad alternare parate incredibili e svarioni macroscopici. Non il miglior portiere al mondo, ma il migliore che la Roma poteva permettersi in quel momento. L’infortunio di Spinazzola durante gli Europei ha fatto il resto. Mou aveva chiesto un centrocampista. E aveva fornito anche l’identikit. Xhaka era il nome perfetto. La partita della Svizzera contro la Francia, con quella sua verticalizzazione che spacca a metà la difesa transalpina, aveva spiegato anche il perché. Pinto però si è ritrovato a dover chiudere un’altra falla. La contabilità dice 11 milioni per Matías Viña, terzino sinistro con un futuro da co-titolare una volta che Spinazzola sarà tornato. Per firmare i contratti Pinto ha impiegato soldi. E tempo. Forse troppo. Così alla fine Xhaka è rimasto all’Arsenal. L’unico acquisto di livello è stato Tammy Abraham, potenzialmente il più forte attaccante di questa Serie A. La chiave è tutta i quella parola: potenzialmente. Perché il presente racconta di un attaccante bravo a far girare la squadra, nell’associarsi con i compagni. Ma che ancora deve migliorare in fase di finalizzazione. Un centravanti che finora ha portato 4 reti e 2 assist in campionato. E che sembra così sovradimensionato rispetto al livello dei compagni, alle ambizioni della squadra.
Mourinho non guarda alla panchina, non si fida delle riserve, dicono i detrattori – Il problema è più statistico che pratico. Perché il rendimento offerto da chi è subentrato è stato etereo, impalpabile. L’alternativa a Karsdorp si chiama Reynolds. Che significa non avere un’alternativa a Karsdorp. Sei milioni spesi per un terzino che ha giocato un minuto in questa Serie A. Kumbulla si è dimostrato un giocatore estremamente macchinoso che incontra difficoltà a impostare l’azione. Quindi inidoneo al calcio di Fonseca. E anche a quello di Mourinho. L’ultimo anno e mezzo di Smalling assomiglia a una passeggiata sul Golgota, con i problemi fisici che sono diventati tormento, che lo hanno escluso dalle rotazioni per troppo tempo. Il gioco corto di Villar (lo scorso anno 0.2 passaggi chiave a partita, il diciannovesimo nella rosa giallorossa) non convince l’allenatore, che cerca da sempre caratteristiche diverse. Diawara non è involuto. È rimasto semplicemente il calciatore che a Napoli non giocava. Mai. Una coerenza di rendimento che porta a chiedersi come mai sia stato inserito nello scambio che ha portato in azzurro Manolas, allora uno dei migliori difensori del campionato. Carles Pérez continua a essere un rebus. L’unico dal quale ci si poteva aspettare qualcosa in più era Borja Mayoral, che lo scorso anno aveva realizzato 10 gol e servito 2 assist. Mourinho ha preferito puntare su Shomurodov. E se n’è assunto la responsabilità. Fra meno di un mese lo spagnolo andrà via. Molto probabilmente alla Fiorentina. Schierarlo adesso non avrebbe molto senso. I mondi del possibile sono inesplorati. E forse si trasformerà in un rimpianto. O forse no. Il confine fra titolari e riserve è sempre più labile. Soprattutto fra i club più forti. Chi sta in panchina può comunque ambire a un posto da titolare nella partita successiva. E magari diventare quasi insostituibile. È il caso di El Shaarawy, che da uomo della ripresa è diventato presenza fissa. Almeno fino all’infortunio. Quante altre riserve giallorosse possono ambire al suo stesso percorso?
Mourinho è un gestore, il suo calcio è primitivo e superato, non può far crescere un gruppo, giurano gli scettici – L’obiezione viene ripetuta da anni. E sembra una canzone stonata. Come se la verticalità dovesse essere sempre ripudiata in nome dell’orizzontalità, come se il Barcellona dovesse essere sempre utilizzato come canone estetico universale. Possibile che l’uomo che impiega porzioni abbondanti dei propri allenamenti a istruire i giocatori su come disporsi in campo durante una lunga lista di situazioni di gioco (fra cui anche le rimesse laterali degli avversari), debba essere considerato come un capufficio, uno che assegna i turni, che accetta le ferie? Per anni la Roma ha scelto allenatori che imponessero un’idea di calcio propositivo, dominante. E non ha quasi mai funzionato. Mourinho era un’idea precisa. Un calcio pratico, assimilabile per un gruppo senza individualità di spicco, sul quale costruire una squadra capace di ritornare in Champions League. Un progetto lungo tre anni. Poi si vedrà. Il problema è che non si è ancora visto quello lo stereotipo che col tempo ha finito per fagocitare l’idea di calcio di Mourinho. Nelle difficoltà tutti si aspettavano il bus parcheggiato davanti alla linea di porta. La Roma non è riuscita a piazzarci neanche un’Apecar. Le linee sono distanti fra loro, le verticalizzazioni avversarie sono sempre pericolose. I giallorossi non vengono fermati, ma battuti. In continuazione. Un pareggio e sette sconfitte a fronte di otto vittorie. Una squadra che non conosce vie di mezzo.
Mou passa troppo tempo a lamentarsi degli arbitri, non si assume le sue responsabilità, schiumano i critici – Il processo mentale è chiaro. Chi denuncia i torti subiti viene visto come un debole, come uno pronto ad accampare scuse perché non riesce a cavarsela da solo. Meglio andare avanti a testa bassa. Meglio far finta che sia tutto a posto. Il problema è che in 15 giornate la Roma ha assistito a un’accumulo di episodi disarmanti. Dal cervellotico giallo a Pellegrini che gli ha impedito di giocare il derby fino alla surreale ammonizione ad Abraham per essersi girato e aver urtato un avversario, passando per i falli (e i rigori) non fischiati a Zaniolo, il campionario è lungo e variegato. Ma che non si possa declassare tutto a chiacchiera da bar lo hanno stabilito i vertici arbitrali: Maresca è stato fermato dopo Roma-Milan. Così come successo ad Aureliano (Venezia-Roma) e Pairetto (che è stato “retrocesso in B” dopo Bologna-Roma). Che i giallorossi siano stati effettivamente danneggiati è ormai conclamato. E ricordarlo non vuol dire addossare ad altri la responsabilità, ma fare cronaca di quanto successo, provare a capire i motivi di una stagione pronta a finire nell’oblio per responsabilità di tecnico e calciatori. Ma anche per qualche elemento esterno.
La retorica di Mourinho è stantia, il suo loro-contro-noi non fa più presa sui calciatori, gridano gli oppositori – Nell’epoca dei dati applicati al calcio, il portoghese è stato fatto passare per un rabdomante del talento, per uno sciamano capace di trasformare in falange oplitica un’armata brancaleone. Con la sua sola presenza. Le sparate che hanno costellato la carriera di Mou hanno sempre compattato il gruppo, permesso ai calciatori di rendere qualcosa in più rispetto alle loro possibilità. Eppure non sono mai riuscite a trasformare un buon calciatore in Maradona. Per provare ad alzare l’asticella, Mourinho ha pescato a mani piene dalla retorica, ha coniato frasi spot, ha interpretato un personaggio. Ora che non ha più campioni che sorreggono le sue sparate, che non ha più titoli da sbattere in faccia ai critici, quelle parole lo fanno sembrare quasi indifeso. Ma si può chiedere a qualcuno di smettere di rappresentare se stesso? O meglio perché salutare gioiosamente l’arrivo Mourinho per poi lamentarsi di vederlo continuare a fare Mourinho? Il problema è che lo svolgimento della stagione della Roma è perfettamente coerente con il suo incipit. Mou ha fatto più di qualche errore, ma il suo posizionamento in classifica rispecchia il reale valore della rosa a sua disposizione. Sei mesi fa era davvero lecito aspettarsi qualcosa di diverso?