La procura di Prato ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio per i tre indagati nell’inchiesta sulla morte di Luana D’Orazio, l’operaia di 22 anni, madre di un bambino, morta il 3 maggio scorso nell’azienda tessile in cui lavorava, un’orditura a Montemurlo di Prato. A distanza di sette mesi dall’incidente è stato chiesto il processo per la titolare della ditta, Luana Coppini, per il marito Daniele Faggi che l’accusa considera titolare di fatto dell’azienda e per il tecnico manutentore esterno della ditta, Mario Cusimano. I reati di cui dovranno rispondere sono quelli di omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele anti-infortunistiche, fattispecie contestata per le modifiche tecniche apportate ai sistemi di sicurezza di cui il macchinario, un orditoio da campionatura, è dotato.
Secondo il consulente tecnico della procura, l’ingegner Carlo Gini, l’incidente si è verificato mentre il macchinario a cui stava lavorando Luana stava funzionando ad alta velocità. Una fase della lavorazione, questa, in cui le saracinesche di protezione dovrebbero rimanere abbassate, mentre al momento dell’incidente non lo erano. Secondo la difesa degli indagati, tuttavia, questa perizia è incongruente con i riscontri effettuati perché l’infortunio che ha portato alla morte di Luana sarebbe invece avvenuto in un’altra fase della lavorazione dell’orditoio. Per questo i legali hanno anche chiesto un nuovo incidente probatorio, che però il giudice per le indagini preliminari di Prato non ha concesso. A questo punto, in vista dell’udienza preliminare, secondo quanto si è appreso, i difensori dei tre indagati potrebbero effettuare valutazioni per accedere a riti alternativi a quello del processo ordinario. “Non lasceremo che questa tragedia rimanga impunita: Luana è diventata un simbolo pagando con la sua vita. Chi ha causato la sua morte dovrà assumersene la responsabilità”, aveva detto dopo alcuni mesi di silenzio lo scorso settembre Emma Marrazzo, madre di Luana. “È difficile commentare quanto letto e visto: la morte di mia figlia, come altre sul lavoro, si poteva assolutamente evitare“.