Cultura

Macbeth, la Scala riapre alla grande la stagione operistica

La Scala riapre alla grande la stagione operistica. Lo fa con una delle opere maggiori di Giuseppe Verdi, Macbeth. Dirige Riccardo Chailly, la regìa è di Davide Livermore, le voci di Anna Netrebko (Lady Macbeth), Luca Salsi (Macbeth), Francesco Meli (Macduff), Ildar Abdrazakov (Banco). Dopo il gala dell’anno scorso, A riveder le stelle, trasmesso in remoto causa Covid, quest’anno la platea, i palchi e il temibilissimo loggione saranno di nuovo affollati. È una sorta di miracolo, dice il sovrintendente Dominique Meyer, che ha disposto un piano severo di sorveglianza antiCovid per tutti i lavoratori nello spettacolo, fatto di test antigenici e molecolari ripetuti a stretta distanza.

Verdi compose Macbeth nel 1847 per il teatro della Pergola di Firenze. Lo riprese poi nel 1865 per il Théâtre-Lyrique, corredandolo di balli, secondo l’uso parigino. A Milano, sulla base dell’edizione critica di David Lawton (2005), verrà eseguita la versione del 1865, completa dei ballabili, solitamente omessi; ma nel finale dell’opera si udrà sia la romanza di Macbeth morente, “Mal per me che m’affidai”, che nella versione originale precede di pochi attimi il calar del sipario, sia il coro vittorioso degli insorti scozzesi, che nella versione parigina ne ha preso il posto.

Verdi attinse il soggetto dall’omonima tragedia di William Shakespeare, tradotta in italiano da Carlo Rusconi. Al drammaturgo inglese il compositore fece poi ancora ricorso per Otello (1887) e Falstaff (1892); ma meditò a lungo anche un Re Lear, che però non compose mai. Macbeth rappresenta la dirompente devastazione causata da una smodata bramosia di potere, dal disprezzo per la vita, dal superamento dei vincoli morali e sociali. Il grande critico Northrop Frye, riferendosi alla tragedia di Shakespeare, scrisse: “Voi non andreste a teatro a vedere Macbeth per imparare qualcosa della storia della Scozia: ci andate per apprendere come si sente un uomo dopo che ha guadagnato un regno e ha perduto l’anima”. Sedotto dalla profezia delle streghe che gli hanno pronosticato il trono di Scozia, il nobile Macbeth, spinto dalla sua Lady, uccide il re Duncan, ospite nel suo castello; succedutogli, percorre in crescendo la via di uno spaventoso rimorso, che sfocia nella torsione dell’animo e nella trasformazione della mente: da valoroso diventa pauroso, l’insonnia è la sua condanna, visioni minacciose lo attanagliano. Quanto a Lady, impazzisce.

Verdi fu esigentissimo nella genesi dell’opera. Del libretto, innanzitutto. Pretese da Francesco Maria Piave drastica sintesi, stringatezza estrema. Incontentabile, chiese a un poeta e traduttore di rango, Andrea Maffei, d’intervenire sul testo di Piave. Era poi ossessionato dalla voce della Lady. A proposito di una grande cantante, Eugenia Tadolini, scritturata per una ripresa napoletana del 1848, il maestro scrisse: “Canta alla perfezione, ma io vorrei che la Lady non cantasse. La Tadolini ha una voce stupenda, chiara, limpida, potente: e io vorrei in Lady una voce aspra, soffocata, cupa”. Una voce che esprimesse tutta la malvagità del personaggio. Fu un despota con i cantanti: pretendeva un risultato scenico e musicale perfetto. A detta di Marianna Barbieri Nini, che fu la Lady della ‘prima’, il duetto del prim’atto, “Fatal mia donna! un murmure”, una scena cruciale, “fu provato più di centocinquanta volte: per ottenere, diceva il Maestro, che fosse più discorso che cantato”. E la sera della prova generale, a teatro già pieno, Verdi chiamò lei e il baritono, Felice Varesi, “nella sala del foyer per fare un’altra prova al pianoforte di quel maledettissimo duo”. E “bisognò per forza obbedire al tiranno”.

Il regista Livermore narrerà Macbeth in termini “contemporanei”, un apologo sulle depravazioni del potere dittatoriale, senza però riferirsi a momenti particolari della Storia, neppure quella odierna: dice di non voler fare “cronaca, ma arte”. Nelle scene gli spettatori vedranno lo skyline di una grande metropoli come New York, Singapore, Pechino: uno spettacolo di altezze, vertigini e labirinti. Per quest’ultima immagine lo Studio Giò Forma si è rifatto a un disegno del 1926 dell’architetto milanese Piero Portaluppi, per “Tre case nuove strambe”, mai realizzate: la facciata di un edificio aziendale si presenta proprio come un labirinto in verticale. Nello spettacolo della Scala il labirinto diventa un motivo conduttore, simbolo dei meandri che si aggrovigliano nella mente alterata dei coniugi criminali. Di vertigini non dovrà invece soffrire Anna Netrebko: canterà l’impervio monologo del sonnambulismo a cinque metri di altezza (beninteso imbragata). A popolare le immagini sceniche concorrerà anche la realtà aumentata, in un gioco di illusioni e incubi che Livermore riconduce al film Inception di Christopher Nolan (2010), vincitore di parecchi Oscar.

I costumi del Macbeth scaligero sono di Gianluca Falaschi, le luci di Antonio Castro, le coreografie di Daniel Ezralow. L’opera sarà trasmessa in diretta alle 18 su Rai 1, e su Radiotre.