Nelle "ipotesi di lavoro" presentate dalla ministra Cartabia ad Anm e partiti c'è il divieto di candidarsi nel territorio dove si è lavorato negli ultimi tre anni, con l'obbligo di rientrare in un distretto diverso (senza poter svolgere le funzioni più delicate) e restarci almeno cinque anni. Obbligo di aspettativa non retribuita già all'atto di accettazione della candidatura. Le norme entreranno nella riforma del Csm e dell'ordinamento giudiziario attesa in Cdm "prima di Natale"
Divieto di fare i magistrati e ricoprire allo stesso tempo incarichi elettivi o politici. Divieto di candidarsi nel territorio dove si è lavorato negli ultimi tre anni, con l’obbligo di rientrare in un distretto diverso (senza poter svolgere le funzioni più delicate) e restarci almeno cinque anni. Obbligo di aspettativa non retribuita già all’atto di accettazione della candidatura, con diritto alla conservazione del posto e computo dell’anzianità a soli fini pensionistici. Ecco le misure contro le porte girevoli tra toghe e politica che la ministra Marta Cartabia ha presentato ai partiti all’indomani del “caso Maresca“, il rientro in magistratura – dopo la corsa fallita a sindaco di Napoli – dell’ex pm antimafia, che sarà in contemporanea giudice di Corte d’Appello a Campobasso e consigliere comunale nel capoluogo partenopeo. Una vicenda delicata, che ha spinto la Guardasigilli a promettere che situazioni simili non saranno più ammesse. La nuova disciplina sarà contenuta negli emendamenti del governo al ddl – presentato dall’ex ministro Alfonso Bonafede – già incardinato in Commissione Giustizia alla Camera sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura e della legge sull’ordinamento giudiziario, la terza riforma della giustizia dopo quelle del processo civile e penale, che Cartabia vuole portare in Consiglio dei ministri per l’approvazione “prima di Natale“.
Il testo non c’è ancora, ma negli incontri svolti fino adesso – giovedì con i partiti, martedì con la giunta dell’Associazione nazionale magistrati – sono state rese note quelle che dal governo definiscono “ipotesi di lavoro“. Innanzitutto, l’incompatibilità tra funzioni giudiziarie ed elettive varrà a tutti i livelli: sia per i sindaci e gli amministratori locali (tanto di piccoli paesi, quanto di grandi città), sia per i parlamentari. Si introduce il divieto di candidarsi nel collegio in cui è compreso in tutto o in parte l’ufficio giudiziario in cui i magistrati hanno prestato servizio negli ultimi tre anni (con questa norma, Maresca non avrebbe potuto nemmeno presentarsi alle elezioni). Le toghe che scelgono la politica conserveranno il diritto a rientrare in servizio dopo il mandato, ma lo dovranno fare in un distretto di Corte d’Appello diverso da quello dove lavoravano prima dell’elezione, con divieto di farvi rientro per cinque anni. E i magistrati “di rientro” non potranno svolgere le funzioni di gip/gup o pubblico ministero, ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi o presiedere un collegio. Infine, si legge negli appunti diffusi dal ministero, “all’atto dell’accettazione della candidatura i magistrati devono essere posti in aspettativa senza assegni, obbligatoria per l’intero periodo di svolgimento del mandato, con diritto alla conservazione del posto e computo a soli fini pensionistici del periodo trascorso in aspettativa”.
La riforma modificherà anche la legge elettorale per i componenti togati del Csm. Qui le scelte del governo si allontanano dai suggerimenti della commissione ministeriale guidata dal costituzionalista Massimo Luciani, che a giugno scorso aveva proposto un sistema a “voto singolo trasferibile” in cui l’elettore esprime più preferenze indicando un ordine tra i candidati (prima preferenza, seconda, terza e così via) a prescindere dalle liste di appartenenza. La soluzione ideata è un sistema maggioritario binominale a preferenza unica: il territorio è diviso in collegi (uno per la Cassazione, due per i magistrati inquirenti e quattro per i giudicanti), ciascuno dei quali elegge i due candidati più votati. Un’architettura che secondo alcuni addetti ai lavori – tra cui i consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo – avrà come effetto quello di rafforzare le correnti rendendo impossibile l’elezione di candidati indipendenti, proprio il contrario di quello che sulla carta dovrebbe essere lo scopo della riforma, invocata a gran voce dopo il caso Palamara. Per questo, nell’ultima bozza diffusa dal governo è stato introdotto un correttivo per rappresentare i gruppi minoritari: due seggi verrebbero assegnati ai migliori terzi classificati nei vari collegi.
Ancora, in ogni collegio dovranno esserci almeno sei candidature (con parità di genere), per evitare spartizioni di voti precostituite. Se non arriveranno in modo spontaneo, si ipotizza di trovarle con un sorteggio tra i magistrati che non hanno negato in modo esplicito la loro disponibilità. Il sorteggio sarebbe la soluzione anche dove la parità di genere non fosse rispettata. Infine, gli emendamenti governativi interverranno su una serie di altri aspetti: il concorso in magistratura tornerà accessibile subito dopo la laurea in Giurisprudenza, mentre al momento è necessario il titolo di dottore di ricerca o avvocato o aver completato una Scuola di specializzazione biennale. Per quanto riguarda le nomine nei posti direttivi (procuratore capo, presidente di un Tribunale o di una Corte d’Appello), il Csm dovrà mettere le pratiche all’ordine del giorno in rigoroso ordine cronologico rispetto al momento in cui l’incarico è divenuto vacante, per evitare i cosiddetti “pacchetti” di nomine (accordi spartitori tra correnti su posti messi in votazione contemporaneamente). Tra le candidature che arrivano all’organo di autogoverno dovrà essere preselezionata una rosa attraverso l’esame dei curriculum: i selezionati dovranno obbligatoriamente essere auditi dal plenum.