Non aderisco quasi mai agli scioperi della scuola, perché negli anni ho verificato che i risultati sono modesti, sostanzialmente inesistenti: nella maggior parte dei casi le richieste vengono accolte con il contagocce. Non aderisco quasi mai perché gli scioperi della scuola, quelli indetti dalle maggiori sigle sindacali, sono sempre il venerdì, circostanza che mi induce a essere malizioso: mi fa pensare che la scelta, reiterata, non sia casuale, che la giornata di sciopero sia per molti un potenziale anticipo del fine settimana.

Anche questa volta lo sciopero è di venerdì, il 10 dicembre. Ma oggi ho deciso che non andrò a scuola, per protesta. Questa volta è diverso.

Flc Cgil, Uil Scuola, Gilda e Snals e, in forma separata, Anief rompono gli indugi e hanno proclamato … una giornata di agitazione sindacale per protesta contro l’immobilismo del governo in materia di istruzione, ha scritto la Redazione di Orizzonte scuola, che spiega come la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è la Legge di Bilancio in corso di approvazione in Parlamento che destina ben poco per la scuola … 33 miliardi, ma solo lo 0,6% destinato per riconoscere la professionalità docente … 87 euro, invece, é la previsione di aumento del nuovo contratto. Sull’organico Covid, 300 milioni per gli insegnanti, ma zero risorse, per il personale Ata.

I sindacati chiedono per l’immediato: un concorso Dsga facenti funzioni, riduzione del numero di alunni per classe, abolizione dei vincoli sui trasferimenti del personale, fine delle incursioni legislative in materia di contratto, snellimento delle procedure e meno burocrazie.

Tutto vero, tutto giusto. Anche nella mia scuola, come nella stragrande maggioranza dei diversi plessi che compongono un’infinità di Istituti Comprensivi, manca quasi tutto quel che ci dovrebbe essere. In compenso abbonda quello di cui si farebbe volentieri a meno.

Per arieggiare le classi nelle quali faccio lezione, come da circolare ministeriale, apro le finestre – quando non sono state bloccate per evitare che gli infissi si stacchino dal muro e cadano giù. Lo faccio sempre: quando c’è il sole, ma anche quando piove. I ragazzi non tolgono il giaccone con il quale sono venuti da casa. Anzi, qualcuno – i “fortunati” che a turno siedono nei pressi delle finestre – si mette anche il cappello e la sciarpa. Cerchiamo così di scampare al Covid, ma rischiamo quantomeno un’influenza.

Per disinfettare le mani abbiamo in dotazione un flacone di gel, che cerchiamo di utilizzare con parsimonia. Naturalmente indossiamo la mascherina, sempre, ciascuno seduto al proprio posto. I ragazzi nei loro banchetti monoposto, io alla cattedra. Rispettiamo per quanto possibile scrupolosamente le prescrizioni sanitarie, eppure le classi finiscono in quarantena. E quando rientrano non lo fanno quasi mai al completo: qualche ragazzo continua a risultare “positivo” al tampone di controllo, necessario per il rientro. Così, come da indicazioni, viene attivata la Ddi, cioè la Didattica Digitale Integrata: nome altisonante per un servizio offerto agli studenti che nella sostanza non si discosta dalla famigerata Dad. Stessi collegamenti difficoltosi, medesime lezioni “contratte”, scandite dal consueto “Ci sei/siete?”, che l’insegnante rivolge a chi sta a casa. Intervallate dal ripetuto, “Accendi/accendete la telecamera. Devo vederti-vi”.

Quest’anno, più che nei precedenti, sono costretto a fare lezione con i superstiti in classe, mentre mi collego con i ragazzi costretti a casa. Quel che spesso ne viene fuori non è propriamente una lezione, ma un surrogato, un ibrido che penalizza tutti, sia gli allievi in classe che quelli a casa. Se non altro perché hanno un orario ridotto rispetto ai compagni. Il risultato? Gli si offre un po’ di scuola, non tutta: un po’ di storia e un po’ di matematica, un po’ di grammatica e un po’ di arte. Cerco di fare l’equilibrista, come i miei colleghi, cerco di salvaguardare esigenze e diritti di tutti i ragazzi ma mi rendo conto di non riuscirci sempre. Ed è una sconfitta, amara.

Credo di capire che prendere decisioni sul da farsi in questa situazione di prolungata emergenza, sia estremamente difficile, ma certo è che lavorare in queste condizioni è diventato quasi proibitivo.

Per questo ho deciso di aderire allo sciopero: non perché creda minimamente che le richieste dei sindacati verranno accettate, neppure in parte; non perché mi ritenga rappresentato da sigle sindacali, spesso ondivaghe; non perché pensi che il governo ascolterà la protesta di chi nella scuola ci lavora, con mansioni differenti, ma ugualmente importanti; non perché creda che la scuola, possa recuperare una sua qualche credibilità – come istituzione, intendo.

Non perché speri che la società abbia un quadro della scuola finalmente reale, superando contemporaneamente i luoghi comuni e il racconto che ne fa il Miur: perché la scuola non è composta solo da professori scansafatiche e neppure soltanto da supereroi, ma da tante persone, naturalmente differenti, anche riguardo la loro professionalità. Ma anche perché la scuola non è un luogo sicuro, come dimostrano le classi in quarantena. La scuola non è un luogo sicuro perché, dall’inizio della pandemia ad oggi, gli interventi promessi non sono stati quasi mai realizzati. Mi riferisco agli interventi alle strutture, alludo ai miglioramenti, rimasti una promessa. Con la conseguenza che i Dirigenti scolastici sono stati costretti a fare quel che potevano, a cercare le soluzioni “in casa”. Insomma a provare a dare risposte a insegnanti, famiglie e alunni senza averne avute dal Governo.

Avrei avuto tanti motivi per non aderire allo sciopero di oggi, invece ho deciso che questa volta non sarò a scuola. Ma non per protesta “personale”, non per rivendicare i miei diritti e neppure per avanzare le mie richieste. E allora, perché? Per i miei ragazzi. Quelli delle mie classi, oggi e quelli che verranno dopo. A loro non servono vuoti proclami: serve poter lavorare in ambienti che non siano respingenti, nei quali gli insegnanti siano messi nelle condizioni di poter svolgere il loro lavoro al meglio.

Ai ragazzi serve una scuola che non sia questa scuola. Sempre che l’aspirazione di chi governa sia di farne davvero persone, responsabili e libere. Pensanti.

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