“La scommessa dello Stato è estirpare le sacche di illegalità come lo sfruttamento della manodopera. Una sfida avviata da tempo e portata avanti in modo sinergico per concretizzare soluzioni e azioni di prevenzione incisive, soprattutto in contesti caratterizzati da endemici fenomeni di illegalità”. Le parole sono state pronunciate nel novembre 2016 dall’allora prefetto di Reggio Calabria Michele Di Bari. Si riferiscono alla situazione che c’era (e in parte c’è ancora) “nella piana di Gioia Tauro e, nello specifico, nella tendopoli di San Ferdinando”. La dichiarazione del prefetto è ancora sul sito del ministero dell’Interno che, dopo il periodo alla guida della prefettura di Reggio, con Salvini al Viminale ha chiamato Di Bari al Dipartimento per l’Immigrazione. Ruolo dal quale si è dimesso stamattina in seguito all’indagine, che vede coinvolta sua moglie, Rosalba Bisceglia, sullo sfruttamento di numerosi braccianti africani che in Puglia dormivano nella baraccopoli di Borgo Mezzanone, nel Foggiano.
Nell’esperienza calabrese, però, il prefetto Di Bari ha legato il suo nome alle vicende giudiziarie di Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato a 13 anni e 2 mesi dal Tribunale di Locri al termine del processo “Xenia”. Lo ha fatto non direttamente ma attraverso i suoi ispettori che, assieme a quelli dello Sprar mandati dal ministero dell’Interno, parecchie volte si sono presentati a Riace per mettere sulla graticola quello che per l’opinione pubblica era un modello che ha trasformato un piccolo paesino della Locride in un punto di riferimento per l’accoglienza dei migranti. Il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, lo ha detto espressamente lo scorso maggio, aprendo l’udienza dedicata alla requisitoria del pm Michele Permunian che aveva chiesto, per Lucano, 7 anni e 11 mesi di reclusione. “Quello che ha mosso questa indagine è la relazione prefettizia molto dettagliata”. È stata la frase del procuratore D’Alessio. Si riferiva all’ispezione del viceprefetto Salvatore Gullì inviato a Riace dal prefetto Michele Di Bari.
Una relazione durissima in cui, nel dicembre 2016, la prefettura evidenziava una serie di criticità nella gestione dei progetti di accoglienza. Le regole di ingaggio erano chiare e il viceprefetto Gullì lo scrisse pure nel documento: “L’ispezione è stata condotta partendo dal presupposto che gli aspetti positivi di cui si è detto non giustificano di per sé previsioni derogatorie alla normativa ordinaria”. Un punto di partenza che, pagina per pagina, si è trasformato in una relazione devastante per il piccolo comune che si affaccia sullo Jonio. Nel documento depositato agli atti del processo, infatti, si legge: “È stato accertato che le convenzioni stipulate dal Comune di Riace con tutti gli Enti gestori individuati, vengono attivate a chiamata diretta e fiduciaria, quindi con criteri di selezione ampiamente e assolutamente personali e discrezionali il ché, lesivo della concorrenza, non sembra conforme ai principi di imparzialità e trasparenza”. E ancora: “Carenze gestionali” e “caos amministrativo” in cui “potrebbero insinuarsi e proliferare abusi di qualunque genere”. Per gli ispettori del prefetto Di Bari la strada era in discesa e portava dritta alla Procura della Repubblica di Locri. Nelle conclusioni c’era già la destinazione finale di quella relazione: “Non si può escludere che, oltre alle ipotesi di danno erariale, per mancato rispetto delle norme di contabilità e di finanza pubblica, il cui accertamento per responsabilità contabile è di competenza del magistrato contabile, potrebbero emergere anche profili di responsabilità di altra natura di competenza del magistrato penale”.
Detto fatto, la prefettura ha prima bloccato i finanziamenti per i progetti di accoglienza dei migranti a Riace, facendo collassare il sistema di accoglienza, e poi ha dato l’incipit all’inchiesta dei pm di Locri che nell’ottobre 2018 arrestarono Mimmo Lucano pochi giorni prima che il Ministero dell’Interno targato Lega revocasse i progetti di accoglienza (decisione poi cassata dai giudici amministrativi). Non prima però di vedere pubblicato su “Il Giornale” il contenuto della relazione. Erano i mesi in cui Riace si era trasformata in una meta di pellegrinaggio per altri ispettori della prefettura che hanno redatto altre relazioni. Se prima dell’ispezione del viceprefetto Gullì, ce n’era stata un’altra dello Sprar, quelle successive nemmeno si contano: addirittura otto in un anno. Solo una relazione non venne subito resa pubblica, quella del viceprefetto Francesco Campolo che, nel gennaio 2017, definì Lucano “un uomo che ha dedicato all’accoglienza buona parte della propria vita combattendo battaglie personali e raccogliendo riconoscimenti internazionali di assoluto prestigio”. Poche pagine considerate una sorta di “favoletta” che restarono chiuse nei cassetti del prefetto per oltre un anno, durante il quale Mimmo Lucano le chiese più volte. Anche all’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. Quando l’ex sindaco di Riace si presentò con padre Alex Zanotelli, il prefetto non li ha ricevuti. Ai giornalisti che chiedevano notizie di quella relazione, lo stesso Di Bari dribblava le domande: “L’argomento ormai è in mano all’autorità giudiziaria. Noi non c’entriamo più niente. Bisogna chiedere all’autorità giudiziaria, non a noi. Ne siamo fuori”. Era ottobre 2017. Mancava ancora un anno per l’arresto di Lucano, che voleva solo capire il perché non avesse diritto a leggere una relazione della prefettura sul Comune del quale era sindaco.
Nessuna risposta fino a quando i suoi avvocati non denunciarono l’anomalia alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Solo allora, nel febbraio 2018, il sindaco di Riace ha potuto leggere la relazione del viceprefetto Campolo che poi è stato trasferito ad altro incarico. “Non so se ha pagato questa relazione –ha spiegato in aula un altro funzionario della prefettura – ma di sicuro non è stata gradita”. Erano in tanti a non aver apprezzato la relazione del gennaio 2017. Secondo il pubblico ministero che ha chiesto la condanna di Mimmo Lucano, infatti, “il dottor Campolo inspiegabilmente ha disatteso le direttive ricevute dal suo diretto superiore gerarchico, il prefetto Michele Di Bari, redigendo una relazione secondo criteri non tecnici”. Solo questi, infatti, avrebbero soddisfatto le attese del Viminale dove, un mese prima di rendere pubblica quella relazione, era arrivato il ministro Salvini che considerava Mimmo Lucano “uno zero”: “Gli aspetti positivi non giustificano di per sé previsioni derogatorio alla normativa ordinaria”.