Più che una svolta che supera il passato si tratta di un ritorno al passato. Con l’accordo sindacale raggiunto tra Ita e sindacati del 2 dicembre scorso, Ita toglie la maschera e rivela che la discontinuità chiesta dalla Ue è rimasta solo sulla carta. Discontinuità grazie alla quale Ita non dovrà rimborsare allo Stato i prestiti illegali del 2017 e del 2019 per un totale di 1,3 miliardi concessi ad Alitalia.
La commissaria europea alla Concorrenza, Margrethe Vestager, aveva posto a condizione della statalizzazione di Ita la discontinuità tra Alitalia e la nuova compagnia aerea, che l’investimento statale in Ita fosse conforme alle condizioni, che un investitore privato avrebbe accettato. Tutto da scoprire quel privato che investirebbe 3 miliardi per Ita, di cui 1,35 già autorizzati e 700 milioni già erogati. Difficile anche trovare un governo che in questa fase pandemica e di crisi sociale ed occupazionale investirebbe 3 miliardi per dar vita ad un vettore che dovrebbe far concorrenza alle compagnie low cost e a quelle tradizionali.
La nuova compagnia ha gli stessi aerei di Alitalia, ha speso 160 milioni di euro per comprarsi il logo Alitalia, ha assunto quasi tutti i lavoratori provenienti dalla ex Alitalia, e ha fatto sparire il periodo di prova previsto dalle norme, rendendo evidente che i passaggi dell’attuale organico (2.800 addetti più gli altri 4 mila assunzioni previste dall’accordo entro il 2023 e 4.500 in cassa integrazione) sono una cessione di ramo d’azienda.
Ita, insomma, torna a svolgere la funzione di ammortizzatore sociale surrettizio che faceva già Alitalia, con la cassa integrazione d’oro, con una durata infinita e fuori da ogni vicolo normativo. Il perimetro di attività di voli e destinazioni è limitato al punto di non giustificare l’enorme impegno di risorse previsto per la sua nascita. Un nuovo investimento di risorse pubbliche si aggiunge quindi ai 12 miliardi dei contribuenti già spesi fino ad ora. Con una Ita statalizzata, tutto (spesa e costi) sarà lecito con maggiore facilità.
Per assicurare il ritorno al passato e alle vecchie retribuzioni dell’Alitalia all’interno del nuovo accordo viene introdotto il premio di risultato per tutti i dipendenti che sarà calcolato mediante la combinazione tra la redditività economica dell’azienda e la soddisfazione del cliente. Una quota variabile che rappresenterà il 15% del livello retributivo e sarà articolata su base semestrale. Dal 2023, poi, vi sarà un progressivo riallineamento degli elementi retributivi, che parte da un incremento del 3% per i piloti e del 1% per gli assistenti di volo.
La creatività del governo Draghi lascia più che perplessi visto che ha delegato Ita alla funzione di ammortizzatore sociale con piena autonomia (e copertura) di spesa.
Ora non resta, ancora una volta, che aspettarsi una nuova indagine dell’Unione Europea, perché i patti non erano questi. Due pesi e due misure per i parenti poveri di Air Italy che restano appesi ad un filo con i suoi 1.450 addetti, grazie a un salvataggio che è tutto tranne che equo, e non getta neppure le basi per il rilancio della vecchia compagnia di bandiera anche se ridimensionata e sotto mentite spoglie. Di fatto, il costo del lavoro è stato riallineato a quello precedente: le costose procedure legali e organizzative per il trasferimento da Alitalia ad Ita si potevano evitare, e così si sarebbe anche evitata una nuova emorragia di passeggeri e la perdita di credibilità che questa soluzione ha provocato all’immagine del trasporto aereo italiano. Ma per una soluzione trovata nel segno del conservatorismo e della continuità corporativa l’ex azienda decotta Alitalia si è rigenerata sotto una nuova veste (con i sodi pubblici) e trasformata in Ita.
Il grave problema occupazionale è stato risolto non con l’adozione di una nuova normativa di ammortizzatori sociali universale ma tenendo in piedi un’azienda decotta sotto celate spoglie. Niente di più iniquo se si pensa che proprio in questi giorni a Fiumicino la pulizia degli aerei è passata dall’azienda Gh Acs alla società Sp Professional senza neppure il rispetto della clausola sociale per i 250 addetti che si trovano senza lavoro e senza stipendio, e inoltre, a causa di ritardi nell’erogazione, non stanno percependo la cassa integrazione dallo scorso ottobre e neppure il Fondo integrativo del Trasporto aereo da maggio.
Anche stavolta nessuna forza politica ha voluto rompere con il passato e prendere atto che in Italia non c’è spazio per una compagnia efficiente che sappia tenere distanti da se stessa gli interessi di fornitori di beni e servizi e quelli corporativi della casta dei piloti. Interessi che finiscono sempre per prevalere rispetto a quelli della finanza pubblica e dei passeggeri.