Secondo l’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, lo Stato italiano ha fatto “tutto il possibile” per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni. In un’intervista rilasciata a The Post Internazionale, dopo che la relazione finale della commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc guidata dal deputato di LeU, Erasmo Palazzotto, ha rivelato una sua missione segreta al Cairo su mandato dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte per ottenere la massima collaborazione, l’ex capo del Viminale del governo Gentiloni ricostruisce quei giorni: “Mi fu chiesto dal presidente del Consiglio in persona – spiega – Di fronte a un obiettivo così importante da raggiungere, si agisce nel nome del Paese, indipendentemente da chi è al governo. E si utilizzano le risorse più utili”.

A quel tempo Minniti aveva già lasciato la politica e oggi guida la Fondazione Med-Or di Leonardo che promuove attività culturali, di ricerca e formazione scientifica con i Paesi del Mediterraneo allargato, del Sahel, Corno d’Africa e Medio ed Estremo Oriente. Ma i suoi rapporti consolidati con il regime di Abdel Fattah al-Sisi spinsero Giuseppe Conte a chiedergli supporto nel 2020 per tentare di ricucire i rapporti con Il Cairo. L’allora capo del governo sperava di poter sfruttare l’influenza di Minniti sui vertici del regime per sbloccare la situazione e ottenere l’elezione di domicilio dei cinque indagati, dei quali in quattro sono poi stati rinviati a giudizio, chiesta già nel 2019. Palazzo Chigi contava sul fatto che l’ex ministro era stato determinante per riavvicinare i due Paesi nel 2017, dopo una prima rottura dei rapporti con il ritiro dell’ambasciatore Maurizio Massari, permettendo i nuovi colloqui tra i pm di Roma e i colleghi del Cairo. Il 14 dicembre di quell’anno, inoltre, Minniti incontrò il presidente al-Sisi registrando “un ulteriore passo in avanti – si legge nella relazione della commissione – dal forte valore simbolico: la consegna degli atti processuali alla famiglia Regeni”. L’estremo tentativo della coppia Conte-Minniti, però, non ebbe successo, come si è poi scoperto: l’elezione di domicilio non c’è mai stata e questa mancanza è alla base dello stop al processo a carico dei quattro elementi della National Security egiziana.

“In passato mi sono occupato personalmente del caso Regeni, fatto finora non noto al pubblico”, dichiara Minniti nell’intervista. E aggiunge: “Noi abbiamo fatto tutto il possibile, anzi di più, mi creda, sviluppando una collaborazione giudiziaria con un Paese con il quale non avevamo alcun accordo di collaborazione, facendo sì che le forze di polizia potessero acquisire elementi probatori e che la procura di Roma potesse rinviare a giudizio quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani. Rinvio a giudizio accolto dal gip e fermato dalla Corte d’Assise perché mancava l’elezione di domicilio. Ma lo Stato ha permesso tutto il possibile nel ricostruire il caso”.

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