Televisione

Drag Race Italia, ecco perché vale la pena vedere la versione italiana del super format premiato agli Emmy

Le drag si mettono in gioco, cuciono abiti clamorosi (o a volte orrendi), ballano, cantano, spesso stonano ma per fortuna c’è l’autotune, danno vita a un circo ipnotico e sempre sopra le righe. Insomma, portano anche in Italia l’arte e la cultura drag, in cui l’aspetto sfacciatamente baraccone è spesso lo stratagemma per parlare di inclusione, lanciare messaggi importanti nella battaglia per la conquista dei diritti

di Francesco Canino

Ci sono programmi che vivono gestazioni complicate, altri che vengono criticati in maniera feroce, altri ancora totalmente ignorati (c’è forse una sventura peggiore per chi fa tv o, più in generale, comunicazione?). E poi ci sono quelli che vengono stroncati ancora prima della messa in onda. In questa categoria rientra Drag Race Italia – disponibile su Discovery+ con rilascio settimanale e prossimamente su Real Time -, la versione nostrana dell’iconico format ideato e condotto da Ru Paul, semplicisticamente etichettabile come una gara tra drag queen ma diventato un vero e proprio fenomeno globale pluripremiato anche agli Emmy.

Alla bocciatura a scatola chiusa innescata sui social mesi prima della messa in onda, hanno contribuito diversi elementi. In primo luogo, il fatto che Drag Race venga considerato una sorta di totem dalla comunità LGBTQI+ e in quanto tale intoccabile: tradotto, gli irriducibili della prima ora non avrebbero accettato stravolgimenti del format. Perché, come ha scritto Matteo Colombo nella prefazione di Ru Paul e le altre (edito da Vallardi), il pubblico di Drag Race non solo è straordinariamente severo ma “tende a sentirsi azionista di maggioranza del programma, o quantomeno a prenderselo molto a cuore”. E questo vale anche per il pubblico italiano. Alla prova dei fatti, il format è stato però pienamente rispettato – Ru Paul ha vagliato tutti i dettagli, come fa per ogni nuova versione -, senza stravolgimenti, guardando ai capisaldi della cultura queer mondiale ma parlando molto anche di quella italiana. Non a caso, uno dei momenti più intensi visti fino ad ora è stato il Ru-sical dedicato a Raffaella Carrà, in scena nella terza puntata, un vero e proprio musical sulla vita dell’immensa Raffa scritto ad hoc dal maestro Stefano Magnanesi, capace di realizzare in quattro minuti un omaggio unico e commovente. Dalle mini alle maxi-challenge passando per i lipsync per la salvezza e lo Snatch Game (si ride parecchio soprattutto grazie alla parodia di Valeria Marini, Alessandra Celentano e a quella di Rita Levi Montalcini), gli architravi “rupoliani” ci sono tutti.

Le protagoniste del talent più camp della tv sono le otto drag in gara (siamo alla quarta puntata, anticipata all’8 dicembre) e si vede che il lavoro di casting è stato fatto con sapienza mixando caratteri, archetipi, storie e personalità. Chi è rimasto fermo ai cliché del passato, rimarrà spiazzato: perché in scena ci sono delle artiste complete, capaci di dare vita a personaggi sfaccettati, di fare show, di attingere al meglio dell’en travesti (che affonda le sue radici nella storia dello spettacolo, passa per l’opera barocca del ‘600 e arriva all’immenso Paolo Poli che, tanto per fare un esempio, nel ’74 omaggiava il cabaret a Milleluci con Mina e Raffaella Carrà, lui travestito da diva sciantosa, loro da frequentatori di tabarin in smoking e divise militari: altro che la sciatteria della tv di oggi). Le drag si mettono in gioco, cuciono abiti clamorosi (o a volte orrendi), ballano, cantano, spesso stonano ma per fortuna c’è l’autotune, danno vita a un circo ipnotico e sempre sopra le righe. Insomma, portano anche in Italia l’arte e la cultura drag, in cui l’aspetto sfacciatamente baraccone è spesso lo stratagemma per parlare di inclusione, lanciare messaggi importanti nella battaglia per la conquista dei diritti (non dimentichiamo che in prima linea durante i moti di Stonewall, nel ’69, oltre a Sylvia Rivera c’era una drag: Marsha P. Johnson) e veicolare una visione diversa del mondo senza rinunciare al sarcasmo, al cinismo, ai glitter, a una punta di cattiveria e a una quantità smisurata di “adoorrro” (se tutti gli adoro e i tesoro che ripetono le drag in gara fossero soldi, si ripianerebbe il debito pubblico italiano in due giorni). Perché se è vero che in Werkroom le concorrenti litigano moltissimo, tanto che alla quarta puntata è arrivato pure un pesantissimo provvedimento disciplinare, un minuto dopo sono capaci di spiazzare tutti con confessioni intime e importanti. C’è chi racconta di aver subito bullismo omofobico, chi di non aver avuto il coraggio di rivelare ai genitori di essere gay e chi, come Enorma Jean – la “cattiva” di questa edizione -, ha fatto coming out sulla sua sieropositività abbattendo in tre minuti decenni di pregiudizi (“Non sono un poverino. Sono uno che ce l’ha fatta, sono uno che ce la sta facendo, sono uno dei tanti che ce la farà“).

Nel complesso c’è il carisma, c’è l’unicità, c’è il talento, ci sono i super ospiti – da Cristina D’Avena a Donatella Rettore e Tiziano Ferro – e c’è pure un buon montaggio che rende tutto ancora più fluido e godibile. E poi ci sono i giudici. A cominciare da Tommaso Zorzi, sul quale si sono concentrate le polemiche della vigilia. Zorzi è considerato un personaggio divisivo all’interno della comunità gay, tanto che appena era stata annunciata la sua presenza è scattata una petizione on line (un flop: non ha raggiunto nemmeno l’obiettivo delle 2.500 firme) per chiedere di cacciarlo dal programma. In molti non gli hanno perdonano di aver “flirtato con Giorgia Meloni” al Maurizio Costanzo Show dove la leader di Fratelli d’Italia lo ha ringraziato per il tormentone “io sono Giorgia” (“la cantavano persino i bambini, tutta propaganda gratuita regalata da chi voleva attaccarla”, ha spiegato di recente Tommaso Longobardi, il guru social della Meloni). Zorzi ha chiesto scusa per “non essere stato incisivo abbastanza nel far valere i diritti della mia comunità per la quale ho sempre lottato e questo nessuno può negarlo”, ma una parte della comunità continua a non gradirlo (è la stessa comunità che però assurge a icone gay improbabili personaggi più interessati alla visibilità e a passare alla cassa che a metterci la faccia nella battaglia per i diritti, ma questo è un altro discorso). Zorzi ne esce bene, sguazza in un terreno che è il suo, si vede che conosce il programma e convince per tempi e ironia, anche se appare un po’ con il freno a mano tirato come se avesse paura a lasciarsi andare. Rispetto al format originario, in cui Ru Paul è il programma, lo incarna e spadroneggia (per quanto Michelle Visage, Ross Mathews e Carson Kressley siano figure chiave), da noi i tre giudici se la giocano quasi da comprimari. Priscilla, al secolo Mariano Gallo, è tecnicamente la conduttrice ma l’impressione è che fatichi a spiccare, forse perché mastica meno i meccanismi tv rispetto ai colleghi, forse perché difetta un po’ di guizzo feroce. Il suo “nun facit’ strunzat” (adattamento partenopeo del “don’t fuck it up” di Ru Paul) è comunque il vero tormentone di questa stagione. La terza giudice è Chiara Francini: entrata nello show a gamba tesa come una surreale di Zia Mame di Campi Bisenzio, eccentrica e con i look stravaganti, ha stretto una sorellanza con le drag in gara mettendo subito le cose in chiaro: “Vinca la migliore e vinca la più stronza. Perché essere stronza è l’unica possibilità che ha una donna”. Chi già amava il programma non resterà deluso, per chi non lo conosceva sarà invece un’incredibile scoperta.

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