L'alleanza de facto tra Israele e i Paesi del Golfo deve la sua ragion d'essere soprattutto alla comune ostilità verso Teheran, espressa attraverso i timori rispetto allo sviluppo in senso militare della tecnologia nucleare iraniana e a quelle considerate come mire espansionistiche iraniane nella regione, sia sotto il profilo ideologico che economico-militare
Tre mesi dopo la prima visita di un premier israeliano in Egitto da dieci anni a questa parte e circa un anno dopo la firma degli accordi di Abramo tra Tel Aviv e alcuni Paesi arabi, il primo ministro israeliano Naftali Bennet è sbarcato ieri ad Abu Dhabi, per incontrare il principe emiratino Mohammed bin Zayed al Nahyan (Mbz). Un’altra prima volta: mai prima d’ora un leader israeliano aveva incontrato in via ufficiale le massime autorità degli Emirati Arabi Uniti che oggi, con gli accordi di normalizzazione, sono di fatto alleati dello Stato ebraico.
Sebbene l’ufficio del primo ministro Bennett abbia riferito che l’incontro, durato circa due ore, avrebbe riguardato soprattutto i temi ambientali e del commercio bilaterale – circa 500 milioni di dollari nel 2021, più di tre volte la quota del 2020 -, non è inopportuno credere che il dossier Iran abbia avuto uno spazio rilevante, come in parte confermato da Amir Hayek, ambasciatore israeliano ad Abu Dhabi. L’alleanza de facto tra Israele e i Paesi del Golfo deve la sua ragion d’essere soprattutto alla comune ostilità verso Teheran, espressa attraverso i timori rispetto allo sviluppo in senso militare della tecnologia nucleare iraniana e a quelle considerate come mire espansionistiche iraniane nella regione, sia sotto il profilo ideologico che economico-militare.
Non è forse un caso che il meeting tra Bennett e Mbz sia avvenuto all’indomani del relativamente brusco raffreddamento dei nuovi negoziati sul nucleare a Vienna. Sono di ieri le dichiarazioni piccate del capo negoziatore iraniano, Ali Bagheri Kani, che ha espresso delusione rispetto alla “incapacità dei Paesi europei di promuovere iniziative in grado di rimuovere le sanzioni e tornare all’accordo del 2015″. I negoziati, come noto, ristagnano almeno dall’elezione del presidente iraniano Ebrahim Raisi e devono questa condizione di stallo a un eterno problema di mutua percezione: dopo il deliberato abbandono dell’accordo del 2015 da parte dell’ex presidente americano Donald Trump, Teheran ha deciso di riprendere le attività avanzate di arricchimento dell’uranio (non sentendosi più vincolata) e sin da quel momento considera doveroso un primo passo statunitense ed europeo, volto alla rimozione di gran parte delle sanzioni, in cambio di nuove limitazioni alle attività di arricchimento. Gli Stati uniti hanno una postura quasi speculare, nella misura in cui le sanzioni di diverso grado applicate nei confronti dell’Iran – o quelle indirette, nei confronti di chi ci commercia – vengono considerate anzitutto il “prezzo” che l’Iran deve pagare per il suo protagonismo regionale, oltre che per il ripristino dell’arricchimento ad alte percentuali.
Washington, ma anche Londra attraverso le parole del segretario di Stato per gli Affari Esteri, Liz Truss, si aspetta che l’Iran, sotto pressione, torni a limitare le attività di arricchimento in cambio di un nuovo stop alle sanzioni. Teheran, scottata dal ritiro americano dall’accordo, vuole invece ulteriori garanzie e punta a invertire il rapporto di consequenzialità tra sospensione delle sanzioni e diminuzione dell’arricchimento. È quindi verosimile che Bennet e Mbz abbiano affrontato in profondità la questione iraniana, forse anche da un punto di vista strettamente militare, per ravvivare in qualche modo l’idea trumpiana della “massima pressione”, in un momento nel quale Teheran appare più isolata, complice anche la fine del mandato di Mohammad Javad Zarif, ex ministro degli Esteri iraniano con ottimi rapporti con le controparti europee, sostituito da personalità più rigide come il neo ministro degli esteri Amir Abdollahian e il capo negoziatore Bagheri Kani.
Secondo il quotidiano israeliano Israel Hayom, Bennett nel corso dell’incontro ha condiviso con Mbz alcune informazioni di intelligence riguardanti le linee di rifornimento delle milizie filo-iraniane nella regione e i droni operati direttamente o indirettamente da Teheran.
Ed è proprio di ieri il report del New York Times secondo cui Tel Aviv si è coordinata con l’amministrazione Biden nella decisione di bombardare alcuni siti nucleari iraniani lo scorso ottobre, attività che da protocollo Tel Aviv non conferma né smentisce. Israele vuole, attraverso questa intensa attività di lobbying tra Golfo e Nordafrica, assicurarsi la solidità di un’alleanza internazionale contro la Repubblica islamica, soprattutto nell’eventualità di un ritorno all’accordo del 2015 (scenario che Tel Aviv considera funesto). Accordo che tuttavia non è mai parso così lontano come oggi.
È altrettanto possibile, tuttavia, che l’incontro abbia anche vissuto momenti di perplessità e che siano state congelate alcune tensioni latenti, se è vero che fonti governative israeliane riferiscono di un moderato scetticismo sulla visita che la scorsa settimana Sheikh Tanoun bin Zayed al Nahyan, consigliere di sicurezza nazionale degli Emirati, ha compiuto a Teheran, la prima dal 2016. In questo senso è emblematico quanto riportato dalla Reuters, secondo cui nel corso della settimana una delegazione statunitense atterrerà ad Abu Dhabi con il compito di riassicurarsi che le banche emiratine siano d’accordo sull’impianto sanzionatorio contro l’Iran.