Da un lato l’invito a “intensificare gli sforzi” per rimediare agli “impatti negativi” sui diritti umani “dovuti a decenni di industrializzazione”. Dall’altro la preoccupazione per i “tempi di prescrizione più brevi” per i crimini ambientali, derivati dalla riforma della giustizia impostata dalla ministra Marta Cartabia, che potrebbero “portare all’impunità”. Dopo quasi due settimane di visite nei siti inquinati e incontri istituzionali in giro per l’Italia, da Porto Marghera alla Terra dei Fuochi fino all’Ilva, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e dello smaltimento ecocompatibile di sostanze e rifiuti pericolosi, Marcos A. Orellana, ha fotografato la situazione nelle sue osservazioni preliminari, in attesa di presentare il suo rapporto finale a settembre, durante la sessione del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu.

I timori per la prescrizione – “All’inizio di quest’anno, sono state approvate modifiche legislative che prevedono che i crimini ambientali siano processati con procedure accelerate”, ha spiegato Orellana. Il riferimento del relatore speciale delle Nazioni Unite è alla riforma della giustizia impostata dalla ministra della Giustizia. La riforma ha infatti introdotto una nuova causa di estinzione del processo penale: l’improcedibilità per superamento dei termini di fase, fissati in due anni per il grado d’Appello e uno per quello di Cassazione, prolungabili rispettivamente a tre anni e un anno e sei mesi per giudizi complessi. Rispetto al primo testo presentato in Consiglio dei ministri, però, la pressione politica ha portato a inserire nella legge una lunga serie di eccezioni, cioè reati a cui la “tagliola” non si applica o è allentata: quelli puniti con l’ergastolo, le fattispecie di mafia, terrorismo e traffico di stupefacenti, i reati ad aggravante mafiosa. Ma non gli ecoreati, nonostante fattispecie come l’inquinamento o il disastro ambientale richiedano spesso accertamenti di complessità paragonabile a quelle di criminalità organizzata. Per questo, alla vigilia dell’approvazione definitiva, Legambiente, Wwf, Greenpeace, Libera e Gruppo Abele avevano lanciato un appello – caduto nel vuoto – per includere i delitti ambientali nel regime speciale.

“Serve tempo per le indagini, rischio impunità” – Un appello di fatto “inglobato” ora dal relatore Onu: “Se è vero che processi più agili e veloci sono obiettivi degni di nota, mi preoccupano i tempi di prescrizione più brevi per i crimini ambientali, poiché la loro complessità richiede spesso un tempo considerevole per completare le indagini in maniera adeguata. Temo che l’applicazione di tempi di prescrizione accelerati possa portare all’impunità per i crimini ambientali”, avvisa Orellana ricordando di aver accolto “con favore” la legge del 2015 che ha introdotto nel codice penale italiano i reati contro l’ambiente, compresi i reati di inquinamento e disastro ambientale. “Prima – osserva – la legislazione penale italiana considerava i reati ambientali come reati minori. Di conseguenza, i rischi limitati e la possibilità di alti profitti hanno favorito, fra le altre, l’attività criminale, alimentando lo scarico illegale e l’incenerimento di rifiuti pericolosi”. Quella serie di norme allarga “la gamma di strumenti disponibili” per gli inquirenti, comprese “l’estensione dei termini di prescrizione, la detenzione preventiva e le intercettazioni”. Cambiamenti grazie ai quali “è stato possibile indagare e perseguire in maniera efficace gli impianti altamente inquinanti e le ecomafie”, scrive ancora Orellana invitando l’Italia a ratificare la Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti e a “intraprendere un’azione decisiva per risolvere il problema legato alla contaminazione da Pfas”. Misure alle quali dovrebbe affiancare maggiori “sforzi per rimediare agli impatti negativi sul godimento dei diritti umani dovuti a decenni di industrializzazione” e le “autorità dovrebbero garantire che le industrie utilizzino tecnologie e metodi di produzione che non danneggino la salute dei residenti”. Perché “ogni persona ha il diritto di vivere in un ambiente sano e privo di sostanze e rifiuti tossici”.

Da Porto Marghera ai Pfas: focus Veneto – Nel corso della sua visita, Orellana ha concentrato l’attenzione su siti contaminati, la gestione dei rifiuti e i pesticidi. Ha espresso “preoccupazione” per la situazione di Porto Marghera, definendo “essenziale” che la Regione Veneto “monitori lo stato di salute dei residenti” e “prenda in considerazione” le informazioni che riceve “in merito all’eccesso di mortalità, ai tumori ed alle malattie cardio-circolatorie che potrebbero essere legate agli alti livelli di inquinamento”. Quindi ha spiegato che “a causa della gravità e dell’estensione dell’inquinamento, il piano di bonifica deve essere attuato con urgenza ed in maniera efficace su tutto il sito contaminato”. Restando in Veneto, Orellana si è detto “seriamente preoccupato” per l’inquinamento da Pfas: “Più di 300.000 persone nella regione sono state colpite dalla contaminazione dell’acqua da Pfas, compresa l’acqua potabile. I residenti della zona hanno sofferto gravi problemi di salute, come infertilità, aborti e diverse forme di tumori, tra gli altri”. Quindi ha invitato l’Italia “ad adottare le misure necessarie per la restrizione dell’uso di queste sostanze a livello nazionale, e ad esercitare la sua leadership a livello regionale, mentre l’Unione Europea si prepara ad affrontare le gravi minacce per la salute e l’ambiente poste dai Pfas”.

Terra dei Fuochi e Ilva – Chiedendo un “drastico cambiamento” nella gestione dei rifiuti e dopo essersi definito “turbato” per l’esportazione di pesticidi che “non sono approvati nell’Unione Europea”, Orellana si è riservato di approfondire la questione dell’impianto Solvay di Rosignano, nel Livornese e ha spiegato che sulle criticità di Roma è “indispensabile adottare politiche efficaci per ridurre i rifiuti”. Quindi ha dedicato una lunga parte delle sue osservazioni alla Terra dei Fuochi e all’Ilva di Taranto. Ripercorrendo la storia delle due aree inquinate, il relatore speciale Onu ha sottolineato come per la Terra dei Fuochi – 500 siti contaminati in un’area che coinvolge 90 Comuni del Casertano e del Napoletano – “mancano le risorse sufficienti per l’effettiva attuazione” delle leggi predisposte dallo Stato e quindi le attività di bonifica “non sono ancora state realizzate”, ritenendo “necessario” un “maggiore sostegno da parte del governo”. Per quanto riguarda il siderurgico tarantino, ora controllato da Invitalia attraverso Acciaierie d’Italia, Orellana ha censurato i decreti Salva Ilva perché la “concessione di immunità crea una percezione di impunità a vantaggio di potenti interessi economici, ed è inoltre incompatibile con il principio di uguaglianza”. Quindi ha ricordato che “l’impianto e il suo processo produttivo sono obsoleti” e che “adesso che lo Stato è diventato uno dei comproprietari dello stabilimento, dovrebbe accelerare la bonifica dei siti contaminati, così come la trasformazione dell’Ilva in modo che la contaminazione dello stabilimento cessi di mettere in pericolo la salute umana e l’ambiente”. E ha sottolineato come “il governo dovrebbe garantire che qualsiasi attività dell’Ilva, e qualsiasi nuova autorizzazione, rispetti i livelli di qualità dell’aria secondo i parametri aggiornati dall’Oms”. Solleciti di stretta attualità, che arrivano a pochi giorni dalla denuncia di Peacelink riguardo la richiesta dell’azienda di concentrare in tre batterie il carbon coke finora bruciato in quattro, attraverso un’accelerazione del processo che, ad avviso degli ambientalisti, provocherebbe maggiori emissioni di inquinanti cancerogeni. Non solo, perché la relazione preliminare di Orellana coincide con il giorno in cui è stato presentato il nuovo piano industriale che prevede un investimento complessivo di 4,7 miliardi di euro, con l’obiettivo decennale di arrivare alla completa decarbonizzazione dello stabilimento.

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