Sparare verso il cielo, come fece il generale Robert Dyrenforth 130 anni fa in Texas, non serve soltanto a solleticare invano la pioggia che si ostina a non cadere. Per secoli, gli agricoltori di tutto il mondo hanno bombardato il cielo a palle incatenate per evitare la grandine, la precipitazione ghiacciata che distrugge i raccolti indifesi. E la lotta alla grandine è un divertente capitolo della storia, incuneato tra le tradizioni popolari e le leggende religiose.

Per la Bibbia, la grandine è un archetipo di punizione esemplare, come nel sesto flagello d’Egitto, raccontato dal libro dell’Esodo. Dante fa lo stesso nel terzo cerchio dell’Inferno, in armonia con la sua prima guida, Virgilio che, nell’Eneide, aveva ambientato sotto una grandinata l’incontro tra Enea e Didone. E Olaus Magnus (Historia de Gentibus Septentrionalibus, Libro II, Roma: Giovanni Maria Viotto, 1555) racconta, dopo aver illustrato a lungo il flagello della grandine, come i Goti scacciassero gli spiriti annidati nelle nubi tonanti a suon di frecce lanciate con l’arco verso l’alto (vedi Figura 1).

Prima che le doti della polvere nera si diffondessero per tutta l’Europa, fare un po’ di chiasso poteva ridurre l’intensità del fenomeno. All’approssimarsi di alte e scure nubi temporalesche, ogni parroco aveva il compito di suonare le campane a martello. L’origine della credenza era senz’altro pagana, ma la razionalità cristiana aveva assodato che le nuvole nere ospitano gli spiriti maligni. E la teoria che il rumore potesse ridurre la grandine sa di una spontanea evoluzione di tale convinzione, diffusa in tutta Europa già nel XIV secolo: tutt’oggi le campane risuonano nelle campagne dell’Italia settentrionale dove il fenomeno è più frequente.

Con l’introduzione dell’artiglieria, la lotta alla grandine con le onde d’urto iniziò per davvero. I cannoni – usati forse per la prima volta nella battaglia di Crecy nel 1346, durante la guerra dei cent’anni – diventarono nel Cinquecento anche un’arma meteorologica, come narra La Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini, scritta per lui medesimo, in Firenze: un meraviglioso affresco della società italiana. Nel secondo volume, l’impetuoso, collerico e famigerato orafo fiorentino racconta una delle sue imprese più divertenti: “Avevo acconcio parecchi pezzi di artiglieria grossi, invero quella parte dove i nugoli erano più ristretti, ed essendo di già cominciata a piovere un’acqua grossissima, ed io cominciato a sparare queste artiglierie, si fermò la pioggia. E alle quattro volte si mostrò il sole” (vedi Figura 2).

Davvero una buona idea: Cellini aveva contributo in modo decisivo a “salvare più di mille scudi di danno” in occasione solenne entrata in Roma di Margarita d’Austria, duchessa di Firenze. Era il 3 novembre 1538, quando la promessa sposa del quindicenne nipote del Papa fece un trionfale ingresso in città, vestita di nero.

All’inizio dell’Ottocento, erano noti almeno tre metodi di lotta alla grandine: il suono delle campane, i cannoni e gli esplosivi, e i falò, la cui efficacia meteorologica venne poi santificata da uno dei massimi meteorologi dell’epoca – James Pollard Espy, soprannominato The Storm King – allo scopo di innescare le precipitazioni. Ma il metodo balistico rimase il più gettonato per tutto il secolo.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la scienza si occupò a lungo del possibile impiego antigrandine delle onde di shock. All’inizio, l’entusiasmo fu notevole: dopo l’onda di ottimismo innescata dal congresso sulla grandine di Casale del 1899, tra il 1899 e il 1900 il numero dei cannoni nella provincia di Venezia passò da 466 a 1630; a Brescia dal 260 al 1455; e a Treviso da 87 al 1334. Alla fine del 1900, i vignaioli italiani schieravano già 10mila cannoni: in quello stesso anno, esplosero contro il cielo quasi 10 milioni di colpi. E l’esposizione di Lione del 1901 segnò il trionfo dei cannoni antigrandine (vedi Figura 3).

Per bombardare le nuvole più da vicino, nel 1902 i francesi avevano proposto la costruzione e il lancio di appositi razzi. Nel 1906, gli italiani, più modestamente, fecero alcuni esperimenti con un enorme mortaio, capace di scagliare 8 chilogrammi di esplosivo a 750 metri di altezza sul piano di campagna. Non era granché, visto che la grandine, alle nostre latitudini, si forma tra i 6mila e i 10mila metri di quota.

Le prime confutazioni basate sull’osservazione scientifica erano giunte già nei primi anni del secolo scorso, in Austria, Francia e Italia. E si sono periodicamente ripetute nel corso del tempo, anche quando i razzi si sono affiancati o sostituiti ai cannoni, negli anni ’50. All’epoca, i piccoli razzi da vigneto, francesi e italiani, erano in grado di toccare una quota di 2mila metri. Troppo poco e senza la capacità di raggiungere sufficienti livelli di pressione, tali da influenzare la dinamica della nube, né di causare effetti di cavitazione.

Sebbene non ci sia alcuna prova scientifica dell’efficacia delle artiglierie, antiche o moderne, i cannoni e i razzi antigrandine sono ancora in uso nei vigneti, dalla California alla Nuova Zelanda passando per tutta l’ampia fascia d’Europa a rischio grandine. Quasi ovunque, l’artiglieria si è adattata all’evoluzione tecnologica che, da quasi un secolo, mira all’inseminazione delle nubi: si spara verso il cielo per diffondere l’allumina o lo ioduro d’argento nella massa nuvolosa. E, ancora oggi, il dibattito su opportunità ed efficacia del bombardamento delle nuvole assume talora i toni di quello sui vaccini.

Ho scritto questo quarto post sul tema della manipolazione meteorologica poiché alcuni lettori dei precedenti post mi hanno incoraggiato a condividere il poco che so in questo scivolosissimo campo, spesso sospeso tra la science fiction e le teorie complottistiche. Se giudicherete il tema ancora interessante – anche in vista delle iniziative più recenti, a partire dal progetto Tibet e non solo – continueremo a discuterne su questo blog.

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