Per i grandi capitali interessati al calcio, la pandemia ha avuto l’effetto di un Black Friday permanente. Club alla canna del gas, società in (s)vendita, affari per tutti i gusti, anche se non per tutte le tasche. Un rapporto Uefa di recente pubblicazione ha infatti rivelato un record di acquisizioni a cavallo tra il gennaio 2020 e l’aprile 2021, con 52 società calcistiche che hanno cambiato proprietario. Se nel primo trimestre 2020 si erano registrati solo tre passaggi di proprietà, nei mesi successivi, in piena crisi da Covid-19, la situazione è esplosa, viaggiando di pari passo con le crescenti difficoltà dei club nel far quadrare i conti. La parte del leone l’hanno giocata società e fondi speculativi americani: delle 29 società (su 52) passate in mani straniere nel periodo menzionato, 13 battevano bandiera a stelle e strisce. Seconda la Russia con quattro acquisizioni, seguita da Emirati Arabi Uniti e Cina con tre. Gli americani hanno comprato in Belgio, Inghilterra, Italia, Danimarca e Francia, ma il dato sarebbe ancora più elevato se si contassero gli acquisti di Genoa, Ipswich Town e Den Bosch, rimasti fuori dal report Uefa in quanto successivi all’arco temporale dell’inchiesta.

Il calcio vive di cicli e non solo a livello sportivo. Da quando il pallone è diventato una fonte di investimento a livello globale, si possono contare quattro trend nei movimenti di capitale straniero. Il primo è stato quello degli oligarchi russi, inaugurato dall’arcinota vicenda di Roman Abramovich, che dopo aver saputo dell’esistenza del Chelsea durante un volo in elicottero sul Tamigi decise di comprarlo e di trasformarlo in una potenza europea di prima grandezza. Molti connazionali hanno seguito il suo esempio, ma pochi hanno resistito nel tempo, tanto che oggi in Premier League i Blues rimangono l’unica società con un proprietario russo. Scendendo di livello si trova il Bournemouth e nient’altro.

Dopo la Russia è arrivato il momento dei petrodollari, all’insegna di una filosofia del pochi-ma-buoni, ovvero acquisizioni mirate (Psg, Manchester City) nelle quali pompare una quantità pressoché illimitata di soldi, galleggiando abilmente tra le maglie dei regolamenti Uefa in materia di bilancio. Trattandosi di stati sovrani non propriamente considerabili quali esempi di democrazia e rispetto dei diritti umani, il loro prepotente ingresso nel mondo del calcio ha riportato in auge l’utilizzo del termine di sportwashing (già esistente dagli anni 30 con il Mondiale di calcio nell’Italia di Mussolini e le Olimpiadi di Berlino e Garmisch-Partenkirchen nella Germania nazista), ovvero l’utilizzo dello sport per ripulire la propria immagine.

La terza ondata di capitali stranieri è arrivata dalla Cina nel 2014, quando il presidente Xi Jinping diede il via libera a una massiccia operazione di investimento nell’Europa del pallone allo scopo di far crescere il proprio paese fino a diventare uno dei leader mondiali nel calcio. Un’operazione fallita nel giro di pochi anni, visto che in Cina il movimento non ha tratto alcun beneficio da questa strategia. Anzi, l’eccessiva uscita di denaro ha convinto il governo cinese a cambiare rotta e la bolla è presto scoppiata: se nel 2017 erano 20 i club a proprietà cinese, oggi sono rimasti meno di 10 e alcuni non se la passano nemmeno bene – vedi in Serie A il caso dell’Inter, con perdite enormi e ritardi nel pagamento degli stipendi nella passata stagione. Come buona parte degli oligarchi russi, anche i cinesi non sembra siano arrivati per restare.

Adesso è il turno degli americani, con oltre 45 club di proprietà sparsi in mezza Europa. Sembra passato un secolo da quando nel 2005 la famiglia Glazer acquistò il Manchester United tra le perplessità del mondo finanziario Usa. Ma, a differenza di russi, emiri e cinesi, l’obiettivo degli americani è sempre stato chiaro: la realizzazione di un profitto. Ed è ciò che stanno realizzando, in primis proprio i Glazer. Non deve ingannare il declino sportivo del Manchester United, che né grandi nomi come Van Gaal o Mourinho, né le centinaia di milioni di euro spese puntualmente sul mercato a ogni stagione sono riusciti a fermare: i Glazer con lo United stanno realizzando un grande profitto, basti pensare che oggi il club è valutato attorno ai 4 miliardi di euro, ovvero cinque volte quanto sborsato oltre quindici anni fa dalla famiglia.

Quando nell’agosto di quest’anno i media inglesi hanno reso noto che Stan Kroenke, il patron dell’Arsenal, aveva speso mezzo miliardo di dollari per un ranch a Los Angeles, i tifosi dei Gunners sono entrati in subbuglio, visto il (relativamente) ristretto budget a disposizione di Mikael Arteta sul mercato, nonché il caro biglietti dell’Emirates Stadium. Il primo a essere stupito della reazione è stato lo stesso Kroenke: “Negli Stati Uniti”, disse, “abbiamo una mentalità molto diversa”. Oltreoceano, guadagnare denaro dalle proprie società sportive è la cosa più naturale al mondo e, sotto questo profilo, l’incomunicabilità con i tifosi che si aspettano squadre competitive a qualsiasi costo è totale.

Se il Manchester United o l’Arsenal continuano a offrire buone rendite economiche a dispetto di risultati sportivi non all’altezza del blasone del club, per le proprietà il gioco continua a valere la candela. Ma anche le piccole società possono diventare asset importanti, specialmente se militanti in tornei non di primo piano, dove i costi sono bassi e lo sforzo economico iniziale richiesto è contenuto. Questa filosofia è alla base della politica del fondo di investimento Pacific Media Group (Pmg), attualmente proprietario di sei club: Barnsley, Nancy, Esbjerg, Ostenda, Thun e Den Bosch. A parte i belgi, si tratta di società militanti in seconda divisione, con nomi che non autorizzano sogni di gloria, né fanno presupporre una crescita di interesse che travalichi i confini locali. In questo caso per la Pmg i profitti arrivano dal player trading, non prima di aver codificato una serie di regole gestionali valevoli a ogni latitudine: squadre dall’identità tattica ben definita (concetto simile a quello applicato dalla Red Bull alle sue società); rose dall’età media bassa, con nessuna possibilità di acquisto o ingaggio di giocatori sopra i 26 anni; decisioni prese sulla base di dati e numeri. Perché, secondo uno dei boss della Pmg, Paul Conway, “troppe decisioni vengono prese di impulso, per amicizie, suggestioni, occasioni, e si tratta di scelte emotive. I dati sono l’opposto, eliminano l’irrazionalità”.

Se l’analisi delle discipline sportive attraverso le statistiche, chiamata sabermetrica, rimanda al film Moneyball del 2011, non si tratta di una coincidenza, visto che Billy Beane (nella pellicola interpretato da Brad Pitt), l’uomo che ha introdotto la sabermetrica nel baseball, per un certo periodo ha lavorato con la Pmg. Oggi detiene alcune quote degli olandesi dell’Az Alkmaar, club militante in un campionato dal sistema chiuso (dalla B non si retrocede e per essere promossi è necessaria una licenza basati su criteri economici) che rappresenta la struttura, in quanto limita il rischio nel caso di una stagione andata particolarmente male, per questi cercatori di profitto. Anche in Italia l’impronta Usa si è fatta profonda: Genoa, Fiorentina, Milan, Roma, Venezia (più il Bologna canadese) e, scendendo di una o più categorie, Campobasso, Parma, Pisa, Spal. Sembra proprio finito il tempo delle macchiette alla Tim Barton, il businessman texano che sbarcò a Bari per strapparlo dalla ormai sclerotizzata ultra-trentennale gestione Matarrese, salvo scomparire nel nulla il giorno del bonifico dopo che un inviato di Repubblica aveva scoperto che, nella natia Dallas, il suo impero consisteva “in un appartamento in un classico condominio di campagna americano, al 1800 Valley View Ln, ad angolo con la Chartwell Crest”.

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