Le maggiori aziende europee dell’industria della carne e dei latticini emettono tanta anidride carbonica quanto fa l’Italia in sei mesi e inquinano quanto l’Eni e oltre la metà di diversi big dell’oil&gas. Tutto questo, anche grazie al fatto che nessun Paese al mondo obbliga per legge le aziende del settore a riportare le loro emissioni. Così, da uno studio dell’Istituto per la politica agricola e commerciale (Iatp), emerge che i venti maggiori emettitori tra i marchi europei di carne e latticini arrivano a quasi 244 Mt CO2e (milioni di tonnellate di CO2 equivalente) all’anno, oltre la metà di quelli emessi da Regno Unito, Francia e Italia, il 131% delle emissioni dei Paesi Bassi, il 73% della Spagna e il 29% delle emissioni della Germania, tra le più alte in Ue con 856 milioni di tonnellate. Lo spiega il terzo rapporto della serie ‘Emissioni impossibili’ condotta dallo Iatp che, già nel 2018, in uno studio congiunto con la ong Grain, aveva fornito il primo calcolo in assoluto delle emissioni delle 35 maggiori grandi aziende mondiali di carne e prodotti lattiero-caseari, mentre nel dossier ‘Milking the Planet’ del 2020 ha messo in luce il continuo aumento di queste emissioni. Quest’ultimo studio si concentra sulle aziende europee. Ue e Stati Uniti, d’altronde, hanno proposto il Global Methane Pledge (sottoscritto alla Cop26 da 109 Paesi, tra cui l’Italia) per la riduzione del 30% entro il 2030 delle emissioni di metano e la più grande fonte di metano è l’agricoltura industriale su larga scala.
Le emissioni della carne, paragonate a quelle dell’oil&gas – Nello studio si calcolano le emissioni di 35 delle più grandi aziende produttrici di carne e prodotti lattiero-caseari con sede in Europa (che rappresentano circa il 7% di tutte le emissioni dell’Ue per il 2018) e si esaminano i piani climatici di 25 di esse: le 20 aziende maggiori produttrici di emissioni e cinque aziende avicole, tra cui il Gruppo Veronesi. Tra le 20 big, ai primi otto posti il gruppo francese Lactalis, Arla (Danimarca), la svizzera Nestlé, Friesland Campina (Paesi Bassi), Danish Crown, la tedesca Tönnies, Vion Food (Paesi Bassi), la francese Danone, ma ci sono anche il gruppo tedesco Müller e le italiane Pini Italia Group (19°) e Inalca (20°). Dall’analisi emerge che le emissioni totali di queste venti aziende sono vicine a quelle prodotte da Eni in un anno e pari ai due terzi di quelle di Glencore e Total, a oltre la metà di Chevron (55%), al 42% di ExxonMobil, al 44% di Shell e di BP, mentre superano le emissioni di RWE o ConocoPhillips. Le emissioni dei big della carne equivalgono anche al 48% di quelle dovute al carbone consumato nell’intera Unione europea. “È motivo di profonda preoccupazione che poco sia cambiato dalla pubblicazione della nostra prima relazione tre anni fa” spiegano gli autori, sottolineando che “poche aziende riferiscono le loro emissioni e nessuna ha un piano per ridurre le emissioni” all’altezza di ciò che impone la crisi climatica, anche se alcune grandi aziende “stanno annunciando obiettivi zero-net” e altre “chiedono agli allevatori di intraprendere una serie di azioni”.
Il nodo della trasparenza – L’86% di tutta la carne e i latticini nell’Ue più il Regno Unito proviene da 10 paesi: Germania, Francia, Spagna, Polonia, Italia, Paesi Bassi, Danimarca, Irlanda, Belgio e Regno Unito. Le aziende presentate nel rapporto hanno sede o lavorano bestiame in questi 10 paesi. La metà delle 20 società esaminate nel dettaglio non ha comunicato pubblicamente alcuna emissione, né nelle relazioni annuali né attraverso un’iniziativa volontaria. Per le altre dieci non esiste uno standard comparabile di rendicontazione. Solo quattro (Arla, Danone, Friesland Campina e Nestlé) dichiarano le proprie emissioni totali, quindi considerando anche quelle della catena di approvvigionamento (emissioni in azienda da bestiame, letame, carburante per macchinari agricoli, produzione di mangimi per bestiame, cambiamenti nell’uso del suolo e altro ancora), oltre che quelle dirette (da risorse di proprietà e controllate dell’azienda come uffici, impianti di lavorazione e macchinari, ma anche trasporti aziendali) e indirette (generate dall’acquisto di elettricità, riscaldamento e raffreddamento consumati dall’azienda). E tra queste quattro aziende, solo due (Nestlé e Danone) forniscono dettagli sulle emissioni della catena di approvvigionamento del bestiame. Diverse aziende, come la francese Groupe Bigard e la spagnola Coren non hanno indicato nemmeno il numero di animali che macellano ogni anno, rendendo impossibile calcolare le tendenze delle loro emissioni annuali. Emblematico il caso della Germania: sebbene le emissioni agricole del Paese siano tra le più alte dell’Ue, nessuna delle società esaminate con sede in Germania dichiara le proprie emissioni e tantomeno ha un obiettivo climatico. E questo è un altro tasto dolente.
I piani annunciati dalle società – Metà delle 20 aziende esaminate ha annunciato un obiettivo climatico a livello aziendale: sette aziende lattiero-casearie (Arla, Nestlé, Danone, FrieslandCampina, Glanbia, Sodiaal e Bongrain/Savencia) e tre trasformatori di carne (ABP, Danish Crown e Dawn Meats). Tuttavia, invece di dare la priorità alla riduzione del numero di animali nelle loro catene di approvvigionamento, tutti intendono compensare le emissioni legate all’allevamento con altri strumenti, come l’utilizzo dei crediti di carbonio per raggiungere gli obiettivi di riduzione. Solo tre società (Nestlé, FrieslandCampina e ABP) delle dieci aziende con obiettivi climatici hanno annunciato piani per ridurre le loro emissioni totali della catena di approvvigionamento. “Non ci sono prove pubbliche – spiegano gli autori – che qualcuna di queste aziende stia prendendo in considerazione cambiamenti significativi al proprio modello di produzione e lavorazione del bestiame su larga scala”. In Europa, quattro società hanno fissato obiettivi net-zero che includono le loro catene di approvvigionamento: Nestlé, Danish Crown, Danone e Glanbia. Cinque società (Nestlé, Danone, ABP, Arla e Dawn Meats) hanno fissato i propri obiettivi climatici con la Science-based Target Initiative (SBTi), partnership volontaria tra le aziende e il Carbon Disclosure Project, il Global Compact delle Nazioni Unite, il World Resources Institute (WRI) e il Wwf. Altre dovrebbero aderire all’iniziativa. Ma SBTi si basa sull’autodichiarazione delle aziende, che possono fissare obiettivi per contribuire a limitare il riscaldamento a 2°C o 1,5°C. Di fatto, Danone, ABP, Arla e Dawn Meats hanno fissato l’obiettivo di restare sotto i 2°C, mentre Nestlé punta all’1,5°C.
Contraddizioni e trappole – Ma proprio citando Nestlé, il report sostiene che l’ambizione della riduzione del 50% delle emissioni entro il 2030 nella nuova road map Net-Zero “è minuscola rispetto alla crescita prevista dell’azienda”. Nestlé prevede che, in uno scenario business-as-usual, le emissioni lattiero-casearie e legate al bestiame aumenterebbero dai 34,2 MtCO 2 eq del 2018 a 50,6 entro il 2030 (+148% in 12 anni) e si impegna, per quella data, a ridurre le emissioni a 29,6 MtCO 2 equivalenti. “Ma si tratta di una riduzione di 4,6 MtCO 2 in dodici anni rispetto ai livelli esistenti” spiegano gli autori. ABP, il trasformatore irlandese di carne bovina, che ha fissato un obiettivo volontario con la Science-based Target Initiative (SBTi), ha aumentato le sue emissioni del 45% tra il 2016 e il 2018. Nello stesso periodo, anche il gigante tedesco della lavorazione della carne Tönnies ha aumentato le sue emissioni del 30%. Su dieci aziende europee di carne e prodotti lattiero-caseari con obiettivi climatici, poi, sei si sono impegnate a ridurre solo ‘l’intensità’ delle loro emissioni della catena di approvvigionamento. E questo consente alle aziende di affermare che per chilogrammo di carne (o litro di latte) prodotto i gas serra diminuiscono, anche se si aumentano produzione e, quindi, emissioni totali. Uno studio della Fao ha già mostrato come la riduzione dell’intensità delle emissioni (dell’11% tra il 2005 e il 2015) ha fatto poco per fermare l’aumento delle emissioni nel settore, dato che aumentata la quantità complessiva di latte prodotto e lavorato. E non è l’unico strumento utilizzato dalle aziende. Si va dalla “narrativa sull’agricoltura rigenerativa”, all’utilizzo “di compensazioni di carbonio che si basano su impegni incerti per ridurre le emissioni altrove, sostituendo i tagli effettivi alle emissioni”. “Le aziende si stanno attrezzando per creare compensazioni di carbonio sia all’interno che all’esterno delle catene di approvvigionamento – spiegano gli autori – mentre i piani di compensazione includono crediti per il sequestro del carbonio a terra e l’aumento dell’uso di digestori di metano per la produzione di biogas. Il gas catturato può, quindi, essere rivendicato come una compensazione sia dall’industria del bestiame che dalle aziende di combustibili fossili”.