Credo che tutti abbiano sentito almeno una volta nella vita la storia della Rai che è stata una grande industria culturale, un polo di avanguardia e di modernizzazione del paese e ora invece… Se qualcuno volesse riempire questo discorso di contenuti, di dati storici e non lasciarlo come chiacchiera buona per una cena, come luogo comune del tipo non ci sono più le mezze stagioni, ecco, in questi giorni ha l’occasione giusta. E’ accaduta una cosa che ha dell’incredibile e che chi vuole potrà costatare direttamente il prossimo sabato 18 dicembre su Rai 5. Quella sera andrà in onda il documentario di Felice Cappa Jacques Lecoq, viaggio in Italia (presentato in anteprima mercoledì 15 alle 17 al Piccolo Teatro di Milano) a cui seguiranno nella stessa serata televisiva tre pantomime di Jacques Lecoq che la Rai ha messo in onda nei suoi anni gloriosi. Anzi ancor prima che le stagioni della gloria e dell’eccellenza cominciassero.

Qui sta l’incredibile scoperto da Cappa: le pantomime di Lecoq sono Follie restaurant, andata in onda nel 1954, Dogana express trasmesso l’anno dopo (entrambe su musiche di Gino Negri) e Fan Fan bar che, su musiche di Mario Consiglio, con la regia di Alessandro Brissoni e l’interpretazione di Adriana Asti e Romolo Valli, risale – udite, udite! – all’8 ottobre 1953. Quel giorno la televisione italiana non era ancora nata, mancavano tre mesi all’apertura ufficiale del “regolare esercizio”, cioè di un palinsesto quotidiano, esisteva solo una programmazione sperimentale.

Era cominciata fin dal 1949 a Torino negli studi di via Montebello e a Milano, dove nel 1952 in occasione della mitica Fiera Campionaria entrarono in funzione il trasmettitore e i due studi del Centro di produzione di corso Sempione. Ecco Milano, corso Sempione. Senza nulla togliere agli altri centri di produzione, lì nel palazzo progettato da Giò Ponti, artisti, intellettuali, ingegneri, tecnici, musicisti e uomini di teatro mescolavano le loro esperienze e le loro idee per trasferirle nel nuovo mezzo.

Il grande Jacques Lecoq arrivato in Italia su invito di Gianfranco De Bosio, dopo la parentesi padovana che gli aveva consentito di avvicinare il suo teatro alla tradizione della commedia dell’arte e delle maschere, era approdato a Milano e con Grassi e Strehler aveva fondato la scuola del Piccolo. La sua attività si intrecciò negli anni con Dario Fo, Franco Parenti, Giustino Durano, gli “arlecchini” Moretti e Soleri, Luciano Berio e Bruno Maderna, Elio Vittorini, ma non trascurò il contatto con corso Sempione, con la produzione di un nuovo mezzo e un nuovo linguaggio che dal teatro stava assorbendo molti elementi. O meglio, da quel piccolo mondo (per niente antico) non fu trascurata.

Perché qui sta il problema di cui si diceva all’inizio, qui sta la grandezza di quella Rai e la lezione che ancora ci può dare. Quella di una televisione che dialoga costantemente con le altre forme artistiche, che guarda fuori da sé, non necessariamente lontano come vorrebbe il suo prefisso, magari solo a quelle poche centinaia di metri di distanza che separano corso Sempione dalla Triennale o dal Piccolo. Ma guarda sempre verso l’esterno, verso la creatività di uomini e donne che fanno altro, che usano altri linguaggi e che la possono guarire dalle tendenze di ripetitività autoreferenziale e di isolazionismo che oggi l’affliggono.

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