Il consigliere del Csm è intervenuto alla presentazione del libro "La scomparsa di Adinolfi", a firma Alvaro Fiorucci e Raffele Guadagno (edizione Castelvecchi): "Non tutto è perduto, il Csm deve ricordarlo". E cita il caso di Nino Agostino
Siamo a Roma, è il 2 luglio 1994, scompare il giudice romano Paolo Adinolfi. Il senso tragico di questa vicenda iniziata 27 anni fa è tutto rinchiuso nelle parole di suo figlio Lorenzo: “Sono molto felice che lei sia qui, dottor Di Matteo, dopo tanti anni ho il piacere di avere accanto un collega di papà”. Sono le parole pronunciate durante la presentazione del libro “La scomparsa di Adinolfi”, di Alvaro Fiorucci e Raffele Guadagno, portato in libreria da Castelvecchi. All’evento, organizzato il 14 dicembre a Roma, hanno partecipato appunto anche il consigliere del Csm Nino Di Matteo, il collega Sebastiano Ardita, la giornalista Rai Alessandra Forte e il giornalista de il Fatto Quotidiano Antonio Massari. La vicenda: Paolo Adinolfi è un giudice che si occupa dei fallimenti presso il tribunale di Roma. È uno che sa fare molto bene il suo mestiere, non si piega, è molto rigoroso, come la sua educazione cattolica – aveva studiato per diventare avvocato della Sacra Rota – che lo porta ad avere una sottile propensione ad un certo bigottismo, come riconosce sua moglie in un vecchio servizio della redazione “Di chi l’ha visto?” di Federica Sciarelli. Uno così non lascia la famiglia per cambiare vita.
Una storia che si consuma mentre in Italia avviene l’incredibile: le stragi, ben sette, una Agenzia del terrore, la Falange armata, che semina panico, mentre, in quegli stessi mesi, Adinolfi si occupa di soldi, dei loro movimenti. Anche di quelli che riguardano il servizio civile, il SISde? Sì, forse c’è anche il crollo del SISde nelle sue attività: è una ipotesi che fa un pentito importante, Francesco Elmo che parla di lui. Le due indagini aperte negli anni scorsi sulla scomparsa vengono archiviate ma “non tutto è perduto “ dice Di Matteo che si farà carico di chiedere al CSM di ricordare Adinolfi, e sarà la prima volta, “il suo nome deve essere messo accanto a quello degli altri 28 di magistrati uccisi per il lavoro che stavano svolgendo. Occorre pensare di poter rompere gli argini perché non è detto, qualcuno può sempre parlare: è successo anche nel caso dell’uccisione dell’agente Nino Agostino e di sua moglie”, quel poliziotto ammazzato nell’agosto del 1989 in Sicilia: dopo tanto silenzio oggi se ne sa molto di più. Insomma, se qualcuno sa che parli: anche se le inchieste giudiziarie non hanno accertato le responsabilità, tuttavia stabiliscono sicuramente che non si è trattato di un suicidio, che la sua scomparsa non è stata volontaria, non c’è nessuno contesto in questo senso, anzi è avvenuta nell’ambito dei suoi impegni e interessi professionali, il movente è in quella sezione fallimentare del Tribunale di Roma. Chi sa parli: per dignità, per consentire al Paese di sapere, per dare sollievo a quel dolore composto, solitario, da parte della famiglia di Paolo Adinolfi.