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Marcelo Burlon a FQMagazine: “Non ero capito, ho dettato le mie regole. L’ecstasy? Ha aperto dei canali in me. Oggi non mi drogo più, Ibiza è la mia casa”

Ci siamo collegati con lui via Zoom con il suo nuovo buen retiro, dove si è trasferito dopo aver venduto la holding da lui fondata (insieme a Davide de Giglio e Claudio Antonioli, ndr) al colosso dell'e-commerce Farfetch, un'operazione da 675 milioni di dollari. Dalla Patagonia alle Marche è poi Milano, il designer ha creato un vero e proprio linguaggio stilistico conosciuto e apprezzato in tutto il mondo: "Posso dire di esser stato davvero il primo influire ante litteram. D’altra parte, allora come oggi, agli occhi delle persone, vedere che ti muovi con il tuo gruppo di gente che ti segue in tutto il mondo crea una certa sicurezza. E per me è stato fondamentale, agli inizi, muovermi e fare i primi passi insieme a certe persone. Il mio successo non è soltanto mio"

di Ilaria Mauri

Si definisce “mutevole e irrequieto, non classificabile“. Nel suo curriculum ha segnato 23 lavori, dall’art director alle pulizie. Chi è Marcelo Burlon? Cosa c’è dietro al personaggio che ha rivoluzionato il mondo della moda, emblema del self-made man? Lo abbiamo chiesto direttamente a lui, collegandoci via Zoom con il suo nuovo buen retiro a Ibiza, dove si è trasferito dopo aver venduto la holding da lui fondata (insieme a Davide de Giglio e Claudio Antonioli, ndr) al colosso dell’e-commerce Farfetch, un’operazione da 675 milioni di dollari. Arrivato nelle Marche nel 1990 dalla Patagonia, si è rimboccato le maniche per aiutare la famiglia, poi è entrato nel giro della nightlife, è approdato a Milano e da lì ha scardinato il fashion system. Fare la selezione all’ingresso dei Magazzini Generali gli ha fatto conoscere tutti, da Dolce, Gabbana, Raf Simons e Riccardo Tisci, ad Alessandro Dell’Acqua. Passo dopo passo si è fatto strada, è diventato prima dj e poi Pr. Nel 2012 ha lanciato la sua linea t-shirt e ha fatto il botto. “Fin da ragazzino avevo ben chiari i miei obiettivi: ho sempre fatto mille cose, sono stato uno dei pionieri del multitasking, ecco perché non sono classificabile pur avendo sempre tenuto una linea di lavoro ben precisa. All’inizio io non ero né capito né accettato. Il mio essere multitasking non era visto di buon occhio. In più, non seguivo le regole, non mi adeguavo al sistema, non mi legavo mai a nessuno di preciso. Ho inventato le mie regole, del marketing, del mercato, rompendo un sacco di schemi concepiti dalla vecchia guardia”, dice Marcelo Burlon a FqMagazine. E inizia a ripercorrere la sua storia parlando a cuore aperto.

Sei stato un outsider nel sistema moda.
Sono un ragazzo semplice e normale che si è trovato in situazioni che mi piacevano, molte delle quali me le sono create da solo. Ho portato a Milano una cosa nuova che non c’era, l’idea di essere liberi di creare e comunicare in un altro modo. Fino a quel momento – erano i primi anni Duemila – i social erano troppo nuovi e non venivano usati nella moda. Io ho iniziato a lavorare nelle pubbliche relazioni a cavallo tra l’analogico e il digitale, un marchio all’epoca aveva bisogno di un personaggio come me per arrivare al pubblico finale, conquistando una nicchia, la nicchia di quelli che frequentavano i miei eventi. Fui il primo ad intuire le potenzialità dei social per promuovere i miei eventi e i brand. All’epoca non lo faceva nessuno e io non venivo capito: lavoravo per una grossa casa di moda e mi dicevano:‘ Ma cosa stai facendo?’ Poi la bolla è esplosa e oggi i social sono fondamentali per tutti. Me ne vanto, sono stato un pioniere.

Ti ritieni l’uomo giusto al momento giusto?
Questo concetto è una delle basi del buddismo e penso proprio che sia stato alla base anche della mia storia. Sicuramente mi sono trovato nelle migliori condizioni possibili per emergere, poi sono dell’idea che la fortuna ce la costruiamo da soli. Non devo niente a nessuno, non sono mai sceso a compromessi, ho sempre detto quello che pensavo senza filtri, senza nascondermi. Sicuramente anche la droga ha fatto anche il suo: l’ecstasy ha aperto dei canali dentro di me che magari altrimenti sarebbero stati chiusi. È stato fondamentale. Con questo non sto assolutamente dicendo che le persone si devono drogare, ci mancherebbe, ma che se io non avessi fatto uso di determinate sostanze e il mio carattere non fosse stato quello che è, la mia vita sarebbe andata in tutt’altra direzione. Oggi non mi drogo da 20 anni, fumo uno spinello ogni tanto ma nient’altro, perché è una cosa che non mi appartiene più.

Ci pensi mai a come sarebbe stata la tua vita se le cose fossero andate diversamente, se non fosse arrivato il successo?
Non ho studiato a tavolino il mio successo ma ho sempre avuto ben chiara dentro di me la sensazione che in qualche modo sarei emerso a livelli importanti. Ciò detto, anche se non fosse arrivato sarei stato una persona felice. Il successo ha cambiato il mio stile di vita, oggi viaggio con l’aereo privato mentre prima giravo con il cinquantino; colleziono opere d’arte e macchine; ma per il resto io sono rimasto lo stesso.

Tuo nonno era un sarto: pensi di aver preso da lui l’attitudine per la moda?
No perché non ho mai visto il suo atelier, lui era a Buenos Aires, mentre io vivevo in montagna, in Patagonia. Tutta la mia storia è legata soprattutto a mia madre: ha lavorato nel turismo e quindi nella comunicazione, è stata la prima dj del mio paesino natale. Senza neanche pensarci o volerlo, ho preso tanto da lei, le nostre esperienze hanno tanti punti in comune. Sicuramente nel mio inconscio è sempre stata molto presente la sua influenza e poi è uscita molto in modo molto naturale, segnando la mia storia.

Che ricordi hai della tua infanzia in Patagonia?
Facevo scuola di nuoto in una cascata incredibile. Ogni anno per un mese mi mandavano in questa scuola di sci, in un rifugio di montagna nella pre-cordigliera delle Ande. Il sabato mattina si andava al mercato: i miei ricordi sono intrisi di patchuli, questo profumo che ancora amo molto. Nascere in un piccolo villaggio di hippie significa poter stare in giro con gli amici fino a mezzanotte anche da bambino, non ci sono pericoli, si gioca al fiume. Sono cresciuto circondato dalla natura, lontano dal mondo, senza televisione, senza i privilegi che abbiamo oggi. Crescere in un posto cosi ti rende parecchio libero e io credo di essermi portato dietro dall’infanzia e dall’adolescenza questa libertà che ho vissuto.

Come è stato l’impatto al tuo arrivo in Italia?
Dovetti subito rimboccarmi le maniche per aiutare la mia famiglia. Eravamo poveri e iniziai subito a lavorare in fabbrica, a fare il cameriere e le pulizie negli hotel con mia madre. Poi nel ’92 entrai nel giro dei club, tra Abruzzo, Marche e Emilia Romagna. Mi sono ritrovato 16enne a girare l’Italia per discoteche, ancora minorenne. Poi nel ’98 arrivai a Milano seguendo degli amici che alla mia età già lavoravano nella moda, per Prada, Miu Miu, Costume National…continuavano a ripetermi ‘sei sprecato qui’ e mi convinsero a trasferirmi. Iniziai subito a lavorare ai Magazzini Generali che in quegli anni viveva il suo momento d’oro. Poi da cosa è nata cosa, Il famoso ‘popolo della notte’ allora era unito dalla musica, da una certa estetica rappresentata anche da alcuni film di riferimento. Anche gli stilisti frequentavano le discoteche: una volta ricordo che mi ritrovai Jean Paul Gaultier a Riccione e io indossavo una sua maglietta che mi ero appena comprato con i miei risparmi. Lui la riconobbe e mi fece l’occhiolino. Quando mi succede ancora oggi, ma a parti invertite, ho sempre un brivido.

Da quella di Gucci con Balenciaga a quella di Fendi con Versace e Skims: il 2021 è stato l’anno delle grandi “collab” tra brand di moda ma, in realtà, sei stato tu il pioniere delle collaborazioni. Come ti è venuta questa idea?
Ho iniziato a creare capsule collection prima con personaggi vari, dai giocatori dell’Nba ai rapper, e poi con i marchi. È nato tutto in modo per me molto spontaneo: ho pensato che unendo due marchi che tra loro non c’entravano apparentemente niente potesse uscirne qualcosa di interessante. E così è stato. Una delle mie prime collab è stata quella con Borsalino: un brand di cappelli che c’entrava e non c’entrava con me. Abbinarsi a questi marchi che sembrano lontani non solo allarga il pubblico ma fa scoprire come in realtà ci siano legami nascosti anche tra brand agli antipodi.

Hai cambiato pelle ciclicamente come un serpente, mantenendo però sempre un fil rouge tra tutto quello che facevi.
C’è sempre stata una fluidità in tutte le cose che ho fatto, in tutte le persone che ho incontrato ed è stato poi questo che ha fatto sì che diventassi un personaggio. Persone che andavano e venivano, coincidenze: questo ha segnato la mia vita e l’ha resa come è oggi.

Non sei laureato, non hai fatto master dai nomi altisonanti: hai la terza media. Sei arrivato al successo facendo la gavetta, tanta esperienza sul campo e il tuo percorso è diventato un ‘caso studio’. Pensi che oggi, in questa società che spinge ad essere iper-qualificati, sia ancora possibile puntare sulla ‘pratica’? Cosa consigli ai giovani?
La mia formazione è stata quella più importante, quella della strada, il lavoro. Sono stato fortunato ad aver incontrato persone che hanno creduto in me, che mi hanno affidato i loro marchi quando ero ancora giovanissimo, ma lo hanno fatto perché il mio personaggio era più forte dei titoli di studio che non avevo. Il mio modo di comunicare era diverso e completamente innovativo, sono stato il primo ad intuire le potenzialità dei social media per farne uno strumento di marketing e ho portato questa novità cosi forte per l’epoca nel mondo della moda. Oggi si, è ancora fattibile secondo me un percorso del genere. Certo, ciò non toglie che i giovani debbano assolutamente studiare e investire nella propria formazione. Ma se hai un talento e lo sai sfruttare questo valore viene comunque riconosciuto. Più che non fare a gara per apparire sui social, gli consiglio di istruirsi e formarsi a 360 gradi, non solo sui libri ma anche con la gavetta nel mondo del lavoro, come ho fatto io, prendendo una responsabilità dopo l’altra fino ad arrivare ad aprire la mia agenzia.

Tra i tanti primati che appartengono a Marcelo Burlon c’è quello di esser stato il primo influencer quando ancora questa parola neanche esisteva. All’epoca c’era la “crew”, i “followers” erano le persone che ti seguivano letteralmente, che facevano parte del tuo “gruppo”.
Ho iniziato ad avere a che fare con un pubblico che poi è diventato a tutti gli effetti quello dei miei “seguaci”. Ma all’inizio erano solo amici, conoscenti. Posso dire di esser stato davvero il primo influire ante litteram. D’altra parte, allora come oggi, agli occhi delle persone, vedere che ti muovi con il tuo gruppo di gente che ti segue in tutto il mondo crea una certa sicurezza. E per me è stato fondamentale, agli inizi, muovermi e fare i primi passi insieme a certe persone. Il mio successo non è soltanto mio, ne sono consapevole, e ho sempre aiutato e supportato che mi è stato accanto.

Come è stato tornare in Patagonia dopo anni trascorsi in città, nel fulcro della nightlife?
Era il 2006, ero lontano da 12 anni: l’impatto fu incredibile, poi da lì iniziai a tornarci ogni anno. Mi si aprì letteralmente un mondo perché nel frattempo ero cresciuto, avevo cambiato prospettiva, e ritrovare la mia cultura mi ha permesso di conoscerla meglio. Mi sono immerso profondamente in quel sapere antico, ancestrale, e ne sono riemerso portando con me a Milano i simboli pagani che poi ho messo sulle mie magliette.

Ecco, parliamo proprio di quelle t-shirt, un capo semplice, quasi scontato, che tu hai consacrato come oggetto di culto facendolo diventare una tendenza mainstream oltre che la divisa di riconoscimento di un certo gruppo.
Il mio marchio è nato inizialmente come brand di sole magliette perché mi rivolgevo ai clubbers, a chi come me ogni settimana comprava la magliettina giusta per andare a ballare. Non doveva essere un vestito come un altro, ma un simbolo di appartenenza, un filo rosso che mi unisse ai miei fan. Così, attraverso quei simboli della mia terra, ho messo tutto me stesso, la mia storia, nel capo emblema del popolo della notte. Grafiche uniche e originali che ci rendevano subito riconoscibili.

All’indomani del debutto, però, ti ritrovasti una brutta sorpresa a Milano…
Qualcuno aveva tappezzato i muri di Porta Venezia con la scritta “Marcelo Burlon ha rotto il ca**o”. Ci rimasi molto male, non lo nego. Era il mio esordio come stilista e provai un moto di scoraggiamento. Poi però decisi di ribaltare la frittata e quel giorno stesso feci stampare una quarantina di t-shirt con quella scritta e le distribuii ai miei amici. Neanche a dirlo, fu un successo tale che in tanti pensarono fosse una trovata di marketing. Invece no, macché. Anzi, ancora oggi mi chiedo chi sia stato. Non sono mai riuscito a scoprirlo.

Sei molto legato alla tua famiglia: i tuoi genitori come hanno vissuto il percorso che ti ha portato al successo?
Mia mamma e mio papà super orgogliosi del mio percorso, mi hanno sempre supportato e continuano a farlo. Quando siamo arrivati in Italia eravamo poveri, non avevo neanche i soldi per i libri di scuola, me li regalavano i vicini di casa, addirittura mi compravano anche le penne. Dieci anni fa loro sono tornati a vivere in Argentina, dopo 23 trascorsi in Italia: la prima cosa che ho fatto appena ho avuto un po’ di soldi da parte è stato proprio aiutarli e, da ultimo, ho fatto sistemare la loro casa in Patagonia.

Nel 2019 hai deciso di cedere la tua creatura, New Guards Group, al colosso dell’e-commerce Farfetch. Hai quindi lasciato Milano e hai fatto di Ibiza il tuo “buen ritiro”: sei stato un precursore anche in questo, prima che il Covid facesse diventare una moda la fuga dalle grandi città.
Erano tanti anni che cercavo una casa a Ibiza ma non avevo il budget, poi è arrivata la casa perfetta. Due settimane prima del Covid ero già qua fisso. Ibiza è un posto molto forte a livello energetico, ti può rigettare oppure ti può accogliere e cullare. A me è andata bene e ora gran parte della mia vita è qui. Ho una casa incredibile, ho iniziato una collezione d’arte meravigliosa, tra quadri e sculture, faccio eventi nel mio giardino incantato con 80 ulivi centenari e carrubi. É un bosco fatto a cerchi con una piattaforma di 10 metri di diametro al centro. Lì balliamo, facciamo eventi o yoga, è un luogo molto speciale

Una sorta di metafora della tua vita, con te al centro di tanti “gruppi”…
Sì, anche se preferisco dire che siamo tutti accolti all’interno di un grande cerchio. Oggi cerco di non essere più al centro, rescendo si impara a convivere con il proprio ego e a metterlo da parte per lasciare spazio agli altri.

Cosa ti ha catturato di quest’isola?
Ibiza ha una vita invernale molto interessante, i locals sono incredibili: tu vedi dei personaggi e dici ma questi da dove escono. Delle famiglie incredibili, questi uomini con orecchini giganti, un po’ hippie un po’ gitani. Mio marito, l’azienda, tutto è a Milano, io vado e vengo e parlo al mondo da qui: penso che sia più forte. Per anni sono stato in mezzo alla gente, nutrendomi di musica e persona, poi mi sono staccato grazie al lockdown e mi sono costruito un nuovo mondo, con un’energia nuova e fresca. Da qui non mi muovo, la mia vita ora si muove sul triangolo Milano Ibiza Patagonia.

Che rapporto hai con la spiritualità?
La spiritualità è sempre stata una componente importante della mia vita, mi ritengo molto profondo. Dal 1994 io sono buddista praticante, lo sono anche mia mamma e mio marito. Sono cresciuto con la scuola di valori del buddismo e questo mi ha dato già una base importante per muovermi nel mondo. Poi nella mia vita ho fatto molte esperienze, da ragazzino sono stato assistente di una sciamana/strega in Argentina, entrando proprio dentro i riti sciamanici: ne feci uno in apertura di una mia sfilata a Milano, per sanificare il mondo della moda dalle energie negative. Non so se abbia funzionato.

Lo scorso 15 luglio hai annunciato la nascita della Fondazione Marcelo Burlon, un’ente benefico a vocazione culturale che si basa sui concetti di educazione e sostegno dei diritti civili e umani. Come è nato questo progetto?
Ero arrivato al punto che non potevo più fare donazioni come privato cittadino, non aveva più senso e non riuscivo ad aiutare tutte le persone nel modo che volevo. Per il lancio ho organizzato una performance immersiva nel mio giardino, qui, a Ibiza, con Arca, Physical Therapy e Total Freedom e concepita insieme a Club 2 Clib di Torino, l’organizzazione di festival più importante di Italia. Tre ore di libertà assoluta, senza telefoni, in cui le persone non pensavano ad altro che a godersi lo spettacolo e interagire tra loro di persona. Hanno vissuto il momento presente, senza essere per una volta schiavi dei social.

Tra primi interventi concreti della tua Fondazione c’è una casa di accoglienza per giovani.
Sì, con la Croce Rossa italiana e il Gay Center una casa di accoglienza per adolescenti che hanno subito violenze dalle proprie famiglie per la loro condizione. Un luogo sicuro e un punto di riferimento fondamentali per chi si trova ad affrontare certe situazioni. Poi, grazie anche all’aiuto della mia Fondazione e dei fondi raccolti con il Festival a Ibiza, si è riusciti ad aprire Casa Marcella, in Toscana, una casa di accoglienza per ragazze transessuali che hanno subito violenze e discriminazioni.

Tutto questo mentre il Parlmento affossava il disegno di legge contro l’omotransfobia, il cosiddetto “ddl Zan”…
Il ddl Zan era fondamentale per l’Italia, per un Paese civile. Non possiamo non avere una legge che punisce i crimini di odio, tutti, anche quelli nei confronti delle donne. È molto triste che non sia stato approvato e soprattutto mi fanno rabbia le tante bugie che sono state dette a riguardo. Diciamoci le cose come stanno: il disegno di legge non è passato perché i politici tutti hanno hanno distratto l’attenzione da quelli che erano i punti cardine del testo, costruendo una narrazione alternativa per screditarla.

Quali sono le prossime iniziative della Fondazione?
Con Alejandro Chaskielberg, fotografo del National Geograpich stiamo per pubblicare un libro di denuncia sugli incendi che hanno devastato la mia terra: in questi mesi ho già aiutato 30 famiglie a ricostruire le loro case distrutte dal fuoco ma c’è ancora molto da fare. E poi è in arrivo il libro sul razzismo nel mondo della moda di Jason Campbell.

Sei sempre stato molto vicino al mondo del rap e della trap: Sfera Ebbasta ti citò in un suo brano e tu lo invitasti a sfilare per te. Ma non solo: che rapporto hai con questi giovani artisti?
Ricordo che incontrai per la prima volta Sfera Ebbasta quando ancora non era famoso: mi venne a trovare in ufficio dopo il suo primo pezzo in cui mi nominava. Mi sono rivisto in lui, in quel ragazzino che veniva dalla provincia, con tanta voglia di riscatto e una famiglia lavoratrice alle spalle. Come me è uno che si è sempre sbattuto. L’ho preso sotto la mia ala: oggi siamo amici e soci in una catena di ristoranti. Achille Lauro è come se fosse mio fratello. Abbiamo fatto Pechino Express insieme, nel 2017, e devo dire che in quell’occasione l’ho aiutato parecchio. Da allora quando ci vediamo ci chiudiamo nel nostro mondo a raccontarci le nostre vite. Poi, Madame: ho sempre creduto in lei, avremmo dovuto fare un concerto insieme a febbraio 2020 ma poi è saltato tutto per il Covi. Blanco è pazzesco, lo adoro. Gaia l’ho supportata nel suo primo video musicale prima che approdasse nell’universo dei talent (Amici e X Factor, ndr). Un certo sesto senso ce l’ho per i giovani artisti.

Potresti inserire “talent scout” come ventiquattresimo lavoro nella lista…
Effettivamente…(ride)

A giugno hai pubblicato “Marcelo Burlon County of Milan: Confidential” (Rizzoli). Quando hai deciso di fissare la tua storia in un libro?
Da cinque anni lavoravo a “Confidential”: c’era la voglia di raccontare cosa c’è stato prima del marchio, quella parte della mia vita che è stata fondamentale per arrivare dove sono oggi. Tantissimi ragazzi mi dicono ‘sei il mio idolo, sei il mio esempio’ e io chiedo loro: “Ma quale parte della mia vita è un esempio? Questa che sto vivendo ora, in cui sono arrivato alla fama, oppure quella in cui pulivo le stanze d’hotel e mi facevo il mazzo tutto il giorno per aiutare la mia famiglia?”

Un rimpianto?
Quello di aver perso a causa del mio successo delle amicizie che ritenevo molto importanti. Persone molto egocentriche con le quali sono cresciuto ma che non appena ho iniziato a fare carriera non hanno retto, perché credevano che il successo appartenesse solo a loro. Mi hanno cancellato dalla loro vita e tagliato fuori dalla loro cerchia di amici: di uno di questi avevo tatuato le iniziali, le ho fatte rimuovere.

La tua soddisfazione più grande?
Aver costruito il mio impero e il mio marchio senza avere debiti con le banche né stare alle regole di nessuno o dover chiedere permesso. Io non ho mai chiesto permesso in niente di quello che ho fatto.

Cosa c’è nel futuro di Marcelo Burlon?
Andare a vendere la verdura e la frutta che sto iniziando a coltivare nel mio orto sul ciglio delle strade di campagna, qui a Ibiza, assieme a questo mio amico che suona la chitarra. Per il resto si vedrà.

Marcelo Burlon a FQMagazine: “Non ero capito, ho dettato le mie regole. L’ecstasy? Ha aperto dei canali in me. Oggi non mi drogo più, Ibiza è la mia casa”
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