In un lungo post su Facebook l'ex premier comunica di aver incontrato i magistrati Luca Turco e Antonino Nastasi: "Non scappo dalla giustizia". Nonostante avesse accettato di sottoporsi a interrogatorio, però, non ha risposto nemmeno a una domanda: si è limitato a consegnare una memoria difensiva di poche pagine in cui i difensori suggeriscono alla Procura di chiedere l'archiviazione dell'indagine. Renzi, sostengono i legali, non era il "direttore di fatto" della fondazione Open e la "cosiddetta corrente renziana" accusata di aver ricevuto i finanziamenti illeciti non è mai esistita
Il “processo politico alla politica“, le “plurime violazioni costituzionali“, i “reati inesistenti”, l'”invasione di campo”. Matteo Renzi sfodera l’intero campionario di accuse ai magistrati di Firenze che lo indagano per finanziamento illecito ai partiti tramite la fondazione Open. Lo fa con un lungo post su Facebook, in cui comunica – il giorno dopo il voto in suo favore della Giunta per le immunità del Senato – di aver incontrato i pm titolari del fascicolo, Luca Turco e Antonino Nastasi: “Non scappo dalla giustizia”, scrive. A quanto riporta l’Ansa, però, nonostante l’ex premier avesse accettato di sottoporsi a interrogatorio, arrivato a Palazzo di giustizia ha cambiato idea e non ha risposto nemmeno a una domanda: si è limitato a consegnare una memoria difensiva – “cinque paginette a nostre spese”, la definisce – per replicare all’impianto accusatorio, “94mila pagine a spese del contribuente”. Già a novembre 2020, convocato dai pm durante le indagini, il senatore si era rifiutato di comparire, adducendo impegni istituzionali. Nel documento i legali di Renzi, Federico Bagattini e Giandomenico Caiazza, chiedono che la Procura, “preso atto dei gravi errori in fatto, avanzi richiesta di archiviazione del procedimento“: gli errori, sostengono, sono “il difetto della qualifica di ‘direttore di fatto‘ della fondazione Open in capo al senatore Renzi così come la assoluta inesistenza della cosiddetta corrente renziana” all’interno del Pd. L’accusa, quindi, sarebbe “fondata su premesse grossolanamente erronee ed arbitrarie”, nonché “su manifeste violazioni delle guarentigie costituzionali poste a tutela della funzione parlamentare”.
Gli avvocati, in sostanza, accusano i pm di aver voluto coinvolgere a tutti i costi Renzi nell’indagine. “Dagli atti di investigazione – scrivono nel documento – non emerge alcun comportamento gestorio, di amministrazione, di direzione tecnica, di controllo posto in essere dal senatore Matteo Renzi, il quale non ha mai neppure partecipato a un Consiglio direttivo della fondazione Open. Affermare, dunque, che il senatore Matteo Renzi ha diretto la Fondazione Open risulta un modo surrettizio per inserire capziosamente il senatore Matteo Renzi nell’indagine e segnatamente nel perimetro della contestazione” di finanziamento illecito. Non solo: affermare che sia esistita una “corrente renziana” all’interno del Pd, secondo loro, è “un autentico sproposito dal punto di vista politico”, una “sorprendente artefazione”, una “grossolana ed arbitraria mistificazione della realtà”. Per argomentare questa tesi i legali si basano soltanto sulle dichiarazioni pubbliche di Renzi, che formalmente “non ha mai creato una propria corrente, anzi ha sempre avversato una tale logica. Numerose e ripetute sono le circostanze in cui egli rifiuta la costituzione di una propria corrente al punto da dichiarare in più sedi: “prima di strutturare una corrente del PD, lascio il PD e faccio un partito diverso”. Cosa che poi è oggettivamente avvenuta. D’altro canto – sostengono – non si è mai dato, nella esperienza politica repubblicana, che un leader politico abbia strutturato una corrente, negando al contempo la sua esistenza, ed anzi teorizzando l’avversione al sistema correntizio interno ai partiti, come ha sempre pubblicamente fatto il senatore Renzi”.
Dal canto proprio, su Facebook il senatore di Rignano pronostica che il processo Open “resterà negli annali della cronaca giudiziaria come uno scandalo nel quale gli indagati non hanno violato la legge mentre i pubblici ministeri hanno violato la Costituzione“, sostituendosi in un colpo solo sia ai giudici fiorentini sia alla Corte costituzionale, che non è stata ancora nemmeno chiamata in causa (la Giunta ha proposto all’Aula di sollevare il conflitto di attribuzioni, ma il voto finale non arriverà prima dell’anno nuovo). E proprio il voto in Senato è lo scalpo che il leader di Italia Viva usa per dichiararsi vittima. La Giunta “ha deciso con una schiacciante maggioranza (14 contro 2!) di chiedere di sollevare la questione”, rivendica. Ma su quella decisione, anche se Renzi non lo dice, i senatori hanno votato senza leggere le carte: è stata bocciata, infatti, la pregiudiziale di Pd e 5 stelle che chiedeva di acquisire i verbali relativi ai sequestri che l’ex premier considera incostituzionali, per capire se davvero – come sostiene lui – i pm volessero intercettarlo illegalmente leggendo mail e chat di altri soggetti non coperti dall’immunità. Infine, il post torna sul falso storico della pubblicazione “illegittima” dell’estratto conto bancario: il Fatto, senza violare alcuna norma, ha pubblicato un’infografica che citava alcuni singoli movimenti in entrata che dimostravano i pagamenti milionari ottenuti da Renzi – parlamentare in carica – per la propria attività di conferenziere, anche da parte del governo dell’Arabia Saudita.
In ogni caso, le presunte irregolarità contestate dal senatore di Rignano non toccano il merito dell’inchiesta Open, cioè l’accusa di finanziamento illecito per Renzi, Alberto Bianchi, Marco Carrai, Luca Lotti e Maria Elena Boschi e quella di corruzione per Bianchi, Lotti e gli imprenditori Patrizio Donnini e Alfonso Toto. Renzi, Bianchi, Carrai, Lotti e Boschi, componenti del Consiglio direttivo di Open – si legge nell’avviso di conclusione indagini – “ricevevano, in violazione della normativa”, un totale di 3.567.562 euro dal 7 novembre 2014 all’11 luglio 2018, “somme utilizzate per sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana“, quella che ora i legali dell’ex premier sostengono non essere mai esistita. A Luca Lotti, presidente del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) ai tempi del governo Renzi, si contestano due episodi corruttivi: uno per essersi “ripetutamente adoperato, nel periodo temporale 2014 – 2017, in relazione a disposizioni normative di interesse per la spa British American Tobacco Italia spa“, che negli stessi anni aveva donato a Open più di 253mila euro, l’altra per essersi “ripetutamente adoperato, nel periodo temporale 2014 – giugno 2018, affinchè venissero approvate dal Parlamento disposizioni normative favorevoli al gruppo Toto”, titolare di concessioni autostradali, in cambio di più di 800mila euro versati dall’azienda al presidente di Open, Alberto Bianchi, e finiti in parte alla fondazione e in parte al Comitato per il Sì al referendum del 2016.