Attualmente le persone positive e quindi costrette all'isolamento in Italia sono oltre 397mila. E gli asintomatici ma positivi devono rispettare le tre settimane di isolamento. Il professore ordinario all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano: "Ritengo che il termine debba essere mantenuto per il principio di precauzione"
L’aumento dei contagi – quasi mezzo milione nell’ultimo mese e mezzo – con conseguenti quarantene e isolamenti per la maggiora parte delle persone che sono a casa con pochi o in assenza di sintomi, ripropone il tema del lasso di tempo necessario perché in presenza di un tampone positivo si possa uscire e tornare alla normalità comunque: si tratta dei 21 giorni previsti dal ministero della Salute.
Decisione che è stata presa nei momenti più impegnativi della pandemia perché esistevano ed esistono casi di positivi a lungo termine. E naturalmente si considerano come tali anche coloro che, pur non avendo più sintomi come febbre, tosse, difficoltà a respirare, dolori muscolari e stanchezza, continuano appunto a risultare positivi al test molecolare per Sars Cov 2. In questo caso, la persona che risulta asintomatica da almeno una settimana – ad eccezione le alterazioni o la perdita di gusto e olfatto, che possono registrarsi anche oltre la guarigione – può interrompere l’isolamento. Abbiamo chiesto al professor Massimo Clementi, professore ordinario e direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, se ritiene questo tempo ancora congruo. Attualmente le persone positive e quindi costrette all’isolamento in Italia sono oltre 397mila.
Con tampone positivo solo 21 giorni dopo il primo test si può uscire: è un lasso di tempo ancora ragionevole?
Quella dei 21 giorni è stata una scelta presa nel periodo di pandemia galoppante che non è stata più modificata. A questa conclusione si è giunti dopo aver rilevato che la carica virale è molto alta subito prima e nei primi giorni successivi alla comparsa dei sintomi. Dopodiché, tende gradualmente a diminuire: fino a non essere quasi più rilevabile al giorno 21.
Quindi si potrebbe modificare?
È chiaro che adesso si potrebbe cercare di vedere più in dettaglio. Capisco che possa essere un aspetto che dà fastidio all’attività di tutti i giorni, perché è una decisione che viene presa per prudenza. Le infezioni però hanno delle diversità individuali. Ci sono persone che hanno l’infezione più a lungo di altri e altri che hanno eliminato il virus dopo una settimana, come normalmente dovrebbe accadere. Bisognerebbe fare una valutazione della carica virale, ci sono stati pazienti che dopo l’ospedalizzazione ed essere andati a casa hanno mantenuto una carica virale rilevabile ma quello non era più virus attivo. Ritengo che comunque il termine dei 21 giorni debba essere mantenuto per il principio di precauzione. Le racconto un episodio…
Dica
Abbiamo avuto un calciatore con infezione che si è negativizzato abbastanza presto. Ha ripreso allenamenti in una palestra al chiuso. Gli sono stati fatti tamponi prima e dopo un lungo allenamento sul tapis roulant: quello prima era negativo, quello subito dopo era positivo e un altro tampone fatto a distanza di quattro ore nuovamente negativo. Tamponi fatti qui, quindi sono certo dei risultati. Dopo l’infezione era rimasto probabilmente con una quota di virus nelle vie aeree basse, bronchi e alveoli, che non era più rilevabile da un tampone fatto a risposo.
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