Diabolik, il film, il fumetto, l’idea di ieri e di oggi, non è mai stata lontanamente vicina a un cinecomic. Stampiamolo a lettere cubitali sui biglietti per entrare a vedere il risultato finale del progetto da 10 milioni di euro di budget targato Manetti Bros basato sul ladro in calzamaglia ideato dalle sorelle Giussani nel 1962. Già, perché se ne stanno leggendo di ogni tipo sul fallimento del film. E praticamente tutti, probabilmente ebbri di un supereroismo contemporaneo giocherellone, effettistico, globalista si attendono sempre la stessa sbobba marvelizzata davanti ad ogni personaggio sui generis.
Ebbene il Diabolik dei Manetti, interpretato con algida asetticità da Luca Marinelli (doppiaggio, non doppiaggio, stavolta perché no?), è un’ombra nera, felpata, assassina, silenziosa e misteriosa nella notte (Diabolik è un esterno notte per antonomasia) e non un ometto spavaldo, battutista e megalomane come tutta la genia globalizzata a cui ci hanno a forza cinematograficamente abituati. Leggasi operazione filologica rispetto al fumetto. Magari spicciola, grezza, ma non superficiale. Intanto. E non è poco. Il Diabolik nel formato mignon da sfogliare era davvero una figura per nulla empatica, una fantasia da pensiero nobiliare, un po’ Fantomas e un po’ Arsenio Lupin. E niente, i Manetti hanno riportato questa sensazione sospesa, doppia rispetto ad un presente monodimensionale da classi alte (ricchi, ministri, funzionari, signore ingioiellate) mai metaforica e/o simbolica nella dimensione socio-politica (i luoghi, su tutto: Clerville, Bellair, ecc..) in modo pedissequo.
Prendiamo i primi cinque minuti del film, così poi i lettori avidi di trame si tranquillizzano. È l’unico blocco narrativo esplicitamente action. Esterno notte. La Jaguar nera guidata da Diabolik sbuca in una galleria coperta tra negozi chiusi di città. Inseguita dalle auto della polizia subito svolta in una via centrale di Clerville (in mezzo c’è molta Bologna, e poi Milano e Trieste) svuotata di anime e mezzi. L’inseguimento continua con Diabolik che aziona leve e pulsanti dal cruscotto bondiano per seminare i gendarmi impettiti. Buon ultimo rimane con un pugno di mosche l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea) anche lui fregato dall’ennesimo trucco di Diabolik: un moncherino di auto che finisce fuoristrada quando il criminale in calzamaglia è già da un’altra parte con la sua Jaguar. Nulla di trascendente nella dinamicità dell’azione, nulla di imitativo rispetto a un Nolan o a un Fast&Furious, perché Diabolik vive di una iperbolicità nell’agire e nel “terrorizzare” gli abitanti di Clerville che senza mai strafare supera appena (e ci rimane, per carità) il confine tra reale e irreale. Vedi l’invenzione originaria delle maschere – un doppio depistante degli antagonisti del protagonista – usate dal criminale in calzamaglia che prima aderiscono al viso e poi si sfilano come passamontagna troppo stretti. E visto che siamo sui visi (ma potremmo anche segnalare le acconciature pettinate brillantinate con vigore all’indietro) dei protagonisti Manetti&co. centrano un altro paio di inquadrature filologiche rispetto al fumetto come il taglio di luce sul viso di Diabolik in borghese che ricalca la sagoma degli occhi blu che rimangono fuori dalla calzamaglia durante i colpi; e il collo flessuoso, lungo, riflessi avorio, eroticissimo, sormontato da un robusto chiffon di Eva Kant (Miriam Leone, splendida in primi piani e mezzi busti).
Ed è qui si incontra il tratto distintivo a livello espressivo di questa trasposizione che è narrativamente sviluppata senza sbalzi attorno a due albi del fumetto, quindi all’arrivo a Clerville della ricca signora Kant, dell’incontro e innamoramento con Diabolik quando questi vorrebbe rubarle un prezioso diamante, e infine di una nuova dimensione di attività criminale da ladri (in coppia) tra i due protagonisti inseguiti perennemente da Ginko. Il senso dell’operazione revival in generale prova a scaturire da certi frammenti visuali che da tavola ad inchiostro diventano fotogramma, come se il cinema provasse a raffreddare il proprio peculiare movimento rimanendo immobilizzato per un istante al quadro del fumetto.
Prendiamo il dettaglio del piede di Diabolik sul gradino di una scala. Chiaro, nel film il piede deve muoversi, altrimenti sarebbe un fermo immagine, ma il tentativo manettiano è quello di immobilizzarlo ipnoticamente il più possibile come se ci trovassimo davvero nella fissità didascalica di un albo fumetto. Per questo, in generale, tutto ciò che concerne la dinamicità, l’azione, il moto, nel film appare leggermente dilatato, finanche per alcuni verboso (un difetto? Qualche botta e risposta nei dialoghi di troppo, ma anche no). E se possiamo permetterci è un qualcosa che ci ricorda (volontariamente o involontariamente non lo sappiamo) perfino certe nuance da cinema hitchockiano, là dove la suspense esplode in interni magari in notturna o nell’oscurità tra urletti, allungamenti di ombre, tendaggi, drappeggi, finestre. Interessante anche l’innesto della stridula malinconica dissonanza del brano interpretato da Manuel Agnelli – La profondità degli abissi – che prorompe in apertura e chiusura, nonché la classicità orchestrale del soundtrack (Pivio e Aldo De Scalzi) che va ad occupare spesso gli stacchi tra una sequenza e l’altra quasi fossimo in un telefilm.