Il decreto anti-delocalizzazioni diventa un emendamento alla manovra. Dopo mesi di stallo attorno a un testo mai approdato in Consiglio dei ministri, il governo ha deciso di introdurre nuove norme per evitare la fuga delle aziende direttamente in legge di Bilancio, ricalcando le previsioni estive sull’impostazione di un percorso pre-apertura delle procedure di licenziamento e un rafforzamento delle sanzioni per le aziende che si trasferiscono all’estero. Il pallino resterà comunque in mano ai datori di lavoro, tuttavia l’esecutivo con le nuove norme finisce per poter mettere qualche paletto in più e, soprattutto, guadagna tempo nella gestione delle crisi. Non c’è nulla, invece, che riguardi una via priorità alle cooperative dei lavoratori per rilevare la fabbrica né garanzie sulla piena occupazione in caso di subentro nella gestione del sito da parte di un altro privato. E infatti la prima reazione contraria è arrivata dalla Fiom-Cgil, che chiede al governo di “fermarsi” e “convochi i sindacati”.

Dopo rinvii e trattative che andavano avanti dall’estate, il cerchio è stato chiuso con un accordo tra i ministri del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Andrea Orlando e Giancarlo Giorgetti, su uno degli aspetti più spinosi, quello legato alle multe nel caso in cui l’azienda non dovesse rispettare il percorso di salvataggio della fabbrica. Il testo del prevede un pagamento raddoppiato rispetto a quanto previsto dalla legge sui licenziamenti. Se un’azienda è inadempiente rispetto al piano di ristrutturazione del sito e si rifiuta di raggiungere un accordo sulle tappe necessarie al rilancio sarà chiamata a pagare il contributo previsto dalla legge Fornero, la 92, per il finanziamento dell’Aspi, oggi Naspi, in misura doppia. Se invece non è inadempiente ma l’accordo con governo e sindacati sul salvataggio sfuma con conseguenti esuberi, il contributo si moltiplica per 1,5 volte. Il contributo previsto attualmente dalla legge è pari al 41% per cento del massimale mensile della Naspi, per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni: un meccanismo che prevede, per le interruzioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato intervenute dall’1 gennaio 2013, un contributo pari a 483,80 euro per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni.

L’intesa quindi è più soft rispetto ai moltiplicatori immaginati in precedenza, che variavano da “per 3” a “per 6”. Le bozze circolate negli scorsi giorni – dentro le quali il moltiplicatore delle multe erano ancora segnato con “X” – prevedono anche il divieto di comunicare via Teams o WhatsApp l’apertura dei licenziamenti. Non solo: con almeno 90 giorni di anticipo rispetto all’avvio della procedura, le aziende sarebbero obbligate a comunicarlo per iscritto a sindacati, Regioni, Anpal e ministero interessati spiegando quali sono le ragioni economiche, finanziarie, tecniche e organizzative alla base della decisioni, indicando anche il numero dei dipendenti interessati.

Nei due mesi successivi, l’azienda dovrà presentare un piano per comprimere le ricadute occupazionali ed economiche, indicando inoltre gli interventi – ricollocazione, incentivi all’esodo, ammortizzatori sociali – per gestire gli esuberi. Era tutto già previsto in estate, ispirandosi alla legge Florange francese che nel corso degli anni si è dimostrata un flop: di fatto l’azienda che decide di andare via dovrà cercare un compratore, ma nel caso in cui non lo dovesse trovare pagherà una sanzione e potrà in ogni caso lasciare l’Italia. Ci metterà più tempo, rispetto a quanto tecnicamente è possibile fare oggi. Tempo che eventualmente sarà utile per trovare una soluzione. Di fronte alle indiscrezioni degli scorsi giorni il segretario della Cgil Maurizio Landini aveva già reagito in maniera critica, sottolineando che “non è che c’è il bon ton secondo cui se mi licenzi via mail non va più bene, ma se lo dici venti giorni prima con gentilezza allora vale il licenziamento”. Dopo l’annuncio del governo, invece, è stata la Fiom-Cgil a prendere posizione: “Rischia di essere un provvedimento che dà il via libera alle imprese che hanno deciso di delocalizzare. È infatti una mera proceduralizazzione che, tra l’altro, mette in discussione il diritto per i lavoratori di difendersi attraverso le normative contrattuali e il ricorso alla magistratura”, attacca la segretaria Francesca Re David.

“Chiunque sta ai tavoli di crisi sa bene che non bastano certo 3 mesi per discutere sul mantenimento delle attività produttive in Italia e non bastano 12 mesi (che tra l’altro corrispondono all’attuale cassa integrazione per cessazione) per concludere una reindustrializzazione – continua la segretaria dei metalmeccanici Fiom – Non c’è nessun ruolo attivo del Governo per il mantenimento del tessuto industriale del Paese, nella totale assenza di politiche di settore e non c’è nessun vincolo alla responsabilità sociale dell’impresa sancita dalla nostra Costituzione. Anche sulle delocalizzazioni il metodo del Governo è sempre lo stesso: i sindacati e i lavoratori, che stanno affrontando quotidianamente queste crisi, conoscono il provvedimento a cose fatte”. E quindi chiede che il governo “si fermi e convochi le organizzazioni sindacali”.

Per affrontare il tema è stata organizzata, in Senato, una riunione tra i ministri e i senatori. Hanno partecipato i titolari dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti e del Lavoro Andrea Orlando, la viceministra Laura Castelli, la sottosegretaria Caterina Bini. All’obiezione dei senatori che si sono chiesti perché non fare un decreto ad hoc, Orlando – secondo quanto riportano le agenzie di stampa – ha ricordato i casi di delocalizzazioni selvagge di cui oramai sono piene le cronache, dopo aver già spiegato, in pubblico che la manovra è “l’ultimo slot” prima che il quadro rischi di farsi incerto con l’elezione del presidente della Repubblica. I senatori hanno però criticato con forza le scelte del governo. Diversi parlamentari hanno chiesto la possibilità di subemendare i testi, che ancora – lamentano – non hanno potuto leggere. E c’è chi ha chiesto che il governo assuma in pieno la responsabilità politica delle norme. La discussione potrebbe proseguire lunedì, auspica Orlando. Secondo Enrico Letta, segretario del Partito Democratico, “è maturo il tempo per l’Italia di fare un passo avanti importante, un primo passo, per dare un senso di relazione fra gli investimenti e i territori, e il lavoro, che sia diverso da quello vissuto fino a ora”.

L’emendamento del governo non è l’unico sulla questione delocalizzazioni. Una mossa simile è stata annunciata anche da Matteo Mantero, ex M5s e ora senatore di Potere al Popolo. Il suo emendamento condensa il disegno di legge presentato a novembre, destinato ora a confluire – come annunciato da Mantero – in un emendamento che ne riprende i punti principali. Il ddl depositato è imperniato attorno al testo frutto del lavoro di un gruppo di giuslavoristi – che appartengono alle associazioni Giuristi Democratici, CommaDue, Telefonorosso – e degli operai della Gkn, l’azienda di Campi Bisenzio per la quale il fondo Melrose aveva aperto la procedura di licenziamento poi stoppata una prima volta dal tribunale per condotta anti-sindacale.

Tra i punti più importanti previsti dal testo c’è il controllo sulla reale situazione patrimoniale ed economico-finanziaria dell’azienda, la continuità produttiva con piena occupazione anche dell’indotto, la necessità di un parere positivo vincolante della maggioranza dei lavoratori in caso di cessione, il diritto di prelazione della Stato o di cooperative di lavoratori con supporto economico e agevolazioni pubbliche, il controllo pubblico sulla solvibilità dell’acquirente in caso di cessione a un privato e la ricaduta nell’alveo del licenziamento illegittimo nel caso in cui non vengano rispettati tutti i passaggi previsti dalla nuova normativa.

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