San Cristóbal de las Casas (Chiapas, Messico) – dicembre 2021
Queste ultime settimane del 2021 sono state particolarmente turbolente per il Messico. Più che mai il paese latinoamericano si trova a dover affrontare problemi strutturali che scuotono le fondamenta della convivenza sociale. Non si tratta della pandemia (che di certo ha aggravato il contesto generale) ma di questioni annose che riguardano la migrazione, la violenza generalizzata, l’attacco frontale e continuato alla libertà di stampa, i desaparecidos…
Proprio a poche decine di chilometri da dove sto scrivendo questo post, alle porte della cittadina di Chiapa de Corzo, il 9 dicembre si è consumata una terribile tragedia: un camion che trasportava (trafficava) illegalmente più di 150 persone migranti si è schiantato. L’incidente è stato drammatico e ben 54 persone sono rimaste uccise mentre altre 105 hanno riportato ferite con diversi gradi di gravità. Donne e uomini che provenivano dall’America centrale (principalmente dal Guatemala) e che hanno visto il loro sogno di un futuro migliore infrangersi in una curva presa a troppa velocità. Viaggiavano verso lo Stato di Veracruz e da lì, attraverso i canali dei trafficanti di persone, avrebbero cercato di raggiungere la frontiera Usa.
Un sistema ben collaudato di corruzione e connivenza di forze dell’ordine e di funzionari pubblici con la criminalità organizzata, una rete di “persone dello Stato” che, per la giusta quantità di dollari, aggirano i meccanismi sempre più stringenti e militarizzati del controllo di frontiera Usa-Messico. Un “segreto di Pulcinella” che fa sì che la tragedia del 9 dicembre rimanga una goccia nel mare dell’ingiustizia sociale che porta decine di migliaia di persone a rischiare la vita per cercare di raggiungere il Rio Bravo (Rio Grande per gli Usa). Chiapa de Corzo quindi, come Tapachula, altra cittadina chapaneca alla frontiera sud del Messico con il Guatemala, dove decine di migliaia di migranti (moltissimi haitiani) aspettano un lasciapassare che non arriva, un appuntamento con l’ufficiale di migrazione, una parola di speranza.
“Non venite”, invece, le parole che Kamala Harris, vicepresidente Usa, aveva usato a giugno scorso nella sua visita proprio in Guatemala: parole profetiche che hanno anticipato la riattivazione del programma Quédate en México (Rimani in Messico). Un programma che prevede che i richiedenti asilo negli Stati Uniti d’America aspettino l’esito del loro iter amministrativo in Messico e non in territorio Usa. La notizia della riattivazione di questo programma, fortemente voluto a suo tempo dall’amministrazione Trump, è infatti arrivata direttamente dalla Segreteria della Relazioni Esteriori (Sre) messicana il 3 dicembre scorso. Joe Biden, pochi mesi dopo aver assunto l’incarico di nuovo presidente, aveva cancellato questa misura come segnale di discontinuità dall’amministrazione Trump sul tema migratorio ma, già in agosto, un giudice federale del Texas aveva ordinato la sua riattivazione. E così, il Messico di Manuel Andrés Lopez Obrador (Amlo) accede al ripristino di questo programma adducendo “ragioni umanitarie” e si prepara a una nuova, annunciata, enorme crisi. La promessa dagli Usa, però, è quella di inviare in Messico più fondi per gli alloggi temporanei nelle città di frontiera, per le Ong, per la protezione dei gruppi in situazione di vulnerabilità e per l’applicazione di misure contro la diffusione del Covid-19 e la vaccinazione delle persone migranti. La storia ci ha già insegnato come andrà a finire…
Però la “questione migratoria” è solo una delle gravi problematiche che affliggono l’amministrazione Amlo. Infatti, dal 15 al 26 novembre scorso, il Messico ha ricevuto una visita storica: quella del Comitato contro le sparizioni forzate (Ced) dell’Onu. Il comitato ha visitato 12 dei 32 Stati che compongono la federazione messicana, per indagare sulla spaventosa cifra di 95 mila desaparecidos registrati nel paese. Le raccomandazioni ufficiali del Ced saranno emesse solo a marzo 2022 ma le valutazioni preliminari fanno già capire che ci si trova di fronte a problemi strutturali e all’inesistenza o inefficacia di azioni statali al riguardo. Si parla di rivittimizzazione, impunità diffusa e casi di connivenze tra le forze dell’ordine e il crimine organizzato. I desaparecidos sono solo una della facce della medaglia della violenza generalizzata che vede nei giornalisti un altro punto di particolare criticità. Quando mancano pochi giorni per terminare questo 2021, il Messico si trova al secondo posto nel mondo per numero di giornalisti uccisi: sette omicidi (uno proprio qui a San Cristobal a fine ottobre) contro i 12 dell’Afghanistan. Inoltre, proprio l’8 dicembre scorso, il governo messicano, in un atto ufficiale, ha ammesso le sue responsabilità nel caso della sparizione forzata del giornalista Alfredo Jiménez Mota: desaparecido 16 anni fa mentre indagava sulla connivenza di organizzazioni criminali con l’apparato statale. Un primo passo verso la riparazione ai familiari di Alfredo, verso il cammino della verità, giustizia e non ripetizione di quanto accaduto. Ad oggi però, come ricorda Article 19 Mexico, sono ancora 24 i giornalisti desaparecidos, vittime del “sistema Messico”, dove l’impunità e la corruzione continuano ad essere di casa.
Questo post potrebbe essere molto più lungo, perché alla lista di quanto già elencato si unisce la situazione di estrema violenza intersezionale e multilivello sofferta dalle donne, le uccisioni dei líder indigeni e le lotte per la difesa dell’ambiente, gli omicidi dei difensori dei diritti umani, la schiavitù moderna nella fabbriche che producono prodotti a basso costo per gli Usa, il traffico di esseri umani con fini di sfruttamento sessuale e la violenza generata dai cartelli della droga: insomma guardando al Messico di oggi, Dante potrebbe ben aggiornare il suo Inferno della Divina Commedia.