Cinema

One Second, un capolavoro epico ed emozioni cinefile del maestro Zhang Yimou

Lo sguardo del regista è talmente magniloquente da togliere il fiato. Il suo cinema continua a possedere una portentosa forza evocativa negli spazi in campo lungocome nei dettagli più minimali di uomini e cose

di Davide Turrini

Fino a una ventina di anni fa tra gli obblighi cinefili c’erano i film diretti dal regista cinese Zhang Yimou. Poi, complice un allineamento politico del nostro rispetto alla dittatura governativa del suo paese, e a una serie di vorticosi titoli wuxia pian, è stato un filino messo alla porta come un esecutore qualunque. Solo che se un cineasta ha talento, e Zhang a 71 anni ne ha ancora da vendere, è francamente impossibile fingere che non esista più. Una prova lampante è One Second, autentico capolavoro epico sentimentale, incastonato in un contesto storico/politico del passato rivoluzionario cinese di metà anni settanta, lampi di gru su azioni di massa alla Novecento, emozioni cinefile e profonde da sala cinematografica di una volta come in Nuovo cinema paradiso.

Zhang (Yi Zhang) fuggito da una prigione statale vaga nel deserto e si ferma davanti ad una casupola dove Signor Cinema (Fan Wei) ha lasciato nella sacca a cavallo di una bicicletta diverse bobine del film di propaganda del 1964, Heroic sons and daughters. Il fuggitivo osserva la situazione e viene colto di sorpresa dall’arrivo fugace di Liu (Haocun Liu), una ragazzina orfana e povera con i capelli per aria che ruba una bobina. L’inseguimento tra Zhang e Liu assorbe i toni spettacolari di uno spazio desertico potentissimo e vitale fino a quando la bobina torna in mano a Signor Cinema, ora in sosta in un grande villaggio dove dovrà proiettare il film. A quel punto però capiamo che i tre protagonisti hanno tutti un desiderio profondo di possedere quella bobina: Signor Cinema per svolgere al meglio il suo compito di miglior proiezionista della regione con l’accondiscendenza del Partito; Liu perché ha bisogno di materia prima, ovvero la celluloide, per ricomporre un paralume distrutto dal fratellino e posseduto da una gang del luogo; infine Zhang che nel cinegiornale presente sulla bobina sa che apparirà la figlia che le è stata sottratta e che non ne vede da tempo.

Un triello leoniano che prima passa da una ripulitura massificata di centinaia e centinaia di metri di rulli, finiti nella polvere e nel fango per l’ignoranza del figlio di Signor Cinema, da parte di tutti gli abitanti del paese; poi in un lungo blocco centrale che si svolge in una sala di proiezione sgangherata e verace proprio come nel film di Tornatore; fino ad un corposo sottofinale all’apparenza disperato ma che rinsalda definitivamente il legame tra Zhang e Liu, e anche con il non proprio limpido Signor Cinema.

Lo sguardo di Zhang Yimou è talmente magniloquente da togliere il fiato. Il suo cinema continua a possedere una portentosa forza evocativa negli spazi in campo lungo (le sequenze nel deserto sono clamorose) come nei dettagli più minimali di uomini e cose (quelli artigianali delle proiezioni – manovella, telone, megafoni dietro lo schermo e fotogrammi da pulire a mani nude – incantano). C’è in One Second un amore per il cinema così intonso, sincero e profondo da rimanere stupefatti. Tanto che è come se i fotogrammi di celluloide, rulli in bianco e nero, banda del sonoro e dentellatura laterale in continuo spostamento, allineamento, pulitura e proiezione, fossero protagonisti principali del film, metaforicamente oltre la storia di Zhang, Liu e Signor Cinema. One second, insomma, possiede un cuore pulsante per la vita e per le emozioni, per l’amicizia tra ultimi e l’incanto magico di una sala buia e un fascio di luce contro una parete bianca. Poi certo, il sottotesto politico cinese è forte, i ruoli e le identità sociali dei tre protagonisti sono tutti definiti della scala gerarchica imposta dalla rivoluzione maoista. Ma è come se quel margine rimasto libero di azione, movimento, espressione personale interessasse a Zhang in maniera peculiare. Forse anche per questo la censura statale ha chiesto parecchie modifiche censorie (che non sono mai state ufficializzate) alla produzione del film. Rimane il fatto che l’opera mostra tutto quello che vuole mostrare anche senza parole (potrebbe essere addirittura un film muto da quanto l’immagine è significante di per sé). E alla fine, dopo aver schivato bastonate, e aver sorriso e non poco, recuperate i fazzoletti. Serviranno.

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