Le tesi di accusa e difesa si scontrano intorno al 15 agosto, il giorno dopo la pronuncia del Tar del Lazio che sospese il divieto d'ingresso in acque italiane per la nave della ong. Secondo la Procura, da quel momento l’ex vicepremier non poteva più esimersi dal concedere lo sbarco a Lampedusa. L'avvocato Giulia Bongiorno ricorda invece che "Open Arms era costantemente controllata, vigilata e assistita" e caricò a bordo molte più persone del consentito
Una questione di date. Prima del 15 agosto, dopo il 15 agosto. Questo lo scarto principale tra la tesi di difesa e accusa nel primo giorno di testimonianze nel processo a carico di Matteo Salvini, a giudizio a Palermo per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio nel caso Open Arms. I primi otto testimoni (su un totale di 26 convocati, tra cui Conte, Di Maio, Lamorgese, Toninelli e Trenta che testimonieranno tra marzo e maggio prossimi) hanno ripercorso i giorni dell’agosto del 2019 quando la nave della ong con 167 migranti a bordo vagò per venti giorni al largo della Sicilia in attesa di un Place of safety (Pos), un porto sicuro dove attraccare, non concesso dall’allora capo del Viminale. Ed è proprio su questo punto che verte l’accusa della Procura di Palermo. Il dibattimento nell’aula bunker del carcere Pagliarelli, iniziato lo scorso 23 ottobre, è entrato nel vivo: “Open Arms (nave battente bandiera spagnola, ndr) disse che non era in grado di arrivare fino in Spagna ma propose di fare sbarcare i migranti a bordo su una nave della Marina militare italiana, perché fossero trasportati lì. Noi abbiamo risposto che eravamo in grado di farlo solo per un numero limitato di passeggeri e non per tutti, e rifiutarono”, ha ricordato Sergio Liardo, capo del III Reparto “Piani e Operazioni” del Comando generale delle Capitanerie di porto. Un passaggio cruciale, soprattutto perché la difesa di Salvini ha più volte sottolineato come la Ong dovesse fare riferimento al Paese di appartenenza, dove però si rifiutò di andare. Rifiutando in un primo momento anche lo sbarco a Malta, concesso solo per alcuni migranti. Dopo giorni di agonia, dunque, la ong propose l’alternativa del trasbordo, che risulta anche dalle carte depositate dalla Procura.
Liardo ha ricostruito il caso dall’inizio: “Il 1° agosto del 2019 la nave Open Arms ci comunicò avere fatto un soccorso di 52 persone in area Sar (di ricerca e soccorso, ndr) libica, poi salite a 55. Trattandosi di una prima comunicazione, stante il fatto che noi come Italia non avevamo coordinato quell’attività, abbiamo comunicato tutto al ministero dell’Interno. In seguito al decreto sicurezza bis fu emesso un decreto di interdizione di ingresso in acque territoriali firmato dal ministero dell’Interno, con firma anche del ministero delle Infrastrutture e del ministero della Difesa. Poi c’è una richiesta di Pos mandata a noi e a Malta”. Testimonianza che fa al caso della difesa, perché dimostra che “non era di competenza italiana l’intervento sulla Ong”, come ha a più riprese sottolineato l’avvocato di Salvini, Giulia Bongiorno. “La nave rifiutò di dirigersi in Tunisia, di sbarcare 39 immigrati a Malta, di fare rotta in Spagna (diniego ribadito in due occasioni), non fornì dettagli sullo stato di salute delle singole persone a bordo (domandò di farle sbarcare tutte, ma esclusivamente in Italia)”, sottolineano fonti della difesa. Ancora, la ong “fece rotta verso la Libia mentendo alle autorità italiane, visto che partì verso Tripoli dopo aver comunicato che si sarebbe fermata a Lampedusa. Avrebbe potuto accogliere a bordo solo 19 persone ma ne caricò più di 150 in tre eventi diversi. Una volta in acque italiane, Open Arms era costantemente controllata, vigilata, assistita. E, una volta in rada, era in condizioni di completa sicurezza. La nave vagò per il Mediterraneo, ignorando le richieste e le proposte di Madrid e de La Valletta dal 2 al 15 agosto 2019 mettendo a rischio la salute degli immigrati a bordo”, prosegue la ricostruzione difensiva.
L’accusa del pm Gery Ferrara si concentra, tuttavia, sui giorni successivi alla pronuncia del Tar del Lazio che il 14 agosto sospese il divieto di ingresso in acque italiane. Ed è qui che le due versioni, anche sull’esito delle testimonianze di oggi, divergono completamente. Dopo il 15 agosto, secondo la Procura, l’ex vicepremier non poteva esimersi dal concedere lo sbarco a Lampedusa. “Era una nave sovraffollata di migranti sicuramente provati dalla lunga permanenza a bordo. Erano in un ponte coperto da un tendalino. Erano presenti dei bagni chimici in misura molto limitata per un numero così elevato di persone a bordo”, ha raccontato il capitano Edoardo Anedda, comandante delle Unità navale e operativa della stazione navale della Guardia di Finanza di Palermo. “Non credo” fosse possibile “fare uno sbarco frazionato. Assolutamente no. Avrebbe potuto creare un disagio psicologico maggiore“, ha dichiarato. Sottolineando che “dopo 18 giorni non c’erano le condizioni per intraprendere un ulteriore viaggio” verso la Spagna “in sicurezza”. L’udienza si è protratta per quasi sette ore, comprese alcune pause in cui il leader della Lega, presente in aula, si è concesso alcune telefonate, ritornando brevemente all’attività politica, per poi tornare in aula. Indossava una mascherina con la scritta “Prima l’Italia: bella, libera, giusta”. Al termine ha ribadito quanto già detto durante le udienze preliminari: “Dovrei essere ringraziato, invece sono sotto processo”.