Vittime della povertà estrema e dell’indifferenza. Ma peggio ancora di un dispositivo denominato “campo nomadi”, espressione architettonica di un razzismo di Stato che, malgrado tutto, sopravvive da 40 anni in Italia, la nazione denominata in Europa dal 2000 il “Paese dei campi”.

Due fratellini, un maschietto di 4 anni e una femminuccia di 2, sono morti arsi vivi nell’insediamento alle porte di Stornara, comune di 6.000 anime a 30 km da Foggia, la provincia più povera d’Italia. L’incendio sarebbe stato provocato da un bidone di metallo utilizzato come braciere per combattere le rigide notti di questo inverno. Qualcosa non ha funzionato e in pochi secondi la baracca che accoglieva i due fratellini si è ridotta a un cumulo di cenere. Neanche dieci giorni fa un quindicenne rom, nella provincia di Salerno, anch’egli di nazionalità rumena, decideva di impiccarsi dopo un’esistenza troppo amara scandita da sgomberi, accompagnata dagli squittii dei topi, imprigionata nella miseria più nera.

Sono quasi 10.000, in Italia, i minori che conducono dalla nascita un’esistenza dentro una baracca, una tenda, un container o una roulotte delle estreme periferie italiane. Il loro destino è segnato e, quando non si termina prematuramente l’esistenza davanti a un falò o ad un cappio, sono i numeri a predeterminare il domani con un ascensore sociale bloccato nel seminterrato della storia. Un domani non parla il linguaggio della speranza ma quello della dannazione. Ricerche e analisi ci dicono che un bambino che oggi nasce in un “campo nomadi” italiano non potrà mai sognare di laurearsi e nemmeno di raggiungere il diploma. Avrà una possibilità su 7 di conseguire il diploma di terza media e 12 possibilità in più di finire in adozione rispetto al coetaneo che abita in un appartamento; la sua aspettativa di vita ha un’asticella di 10 anni al di sotto della media nazionale. Figli di genitori poveri ma prima di tutto figli dei ghetti, fisici e mentali, che abbiamo creato e che continuiamo a permettere per tenere a galla la nostra tranquillità di cittadini perbene.

Questi luoghi dannati, denominati impropriamente “campi nomadi”, non nascono spontaneamente. Sono frutto di scelte umane legate a speculazioni urbanistiche o a lucide politiche del disprezzo che definiscono e delimitano, su un’arbitraria catalogazione etnica, lo spazio di un abitare diverso, per cittadini dalla cittadinanza amputata. Sono aree del dolore, della segregazione e della marginalità. Ma anche dove dall’alto, si gestiscono appalti e si costruiscono guadagni. Tutto nell’imperfetta e ipocrita legalità.

La notizia della tragica morte del ragazzino di Pontecagnano prima e dei due fratellini dopo, è apparsa per qualche minuto nelle news dei notiziari per poi, piano piano, scendere nella scala dell’importanza e dissolversi in un trafiletto nascosto. Tutto passerà e tutto diventerà inutile, anche la fine di tre giovani vite. Resterà lo spazio temporale di un bambino strozzato da una corda o di un falò a ricordarci quanto siamo lontani da una giustizia sociale che oggi rappresenta solo un’illusione. E con essa i 109 “campi nomadi” italiani, le cui sagome emergono nei grigi tramonti delle nostre periferie estreme, dove fantasmi urbani vagano alla ricerca di una parola, un gesto, un’azione politica che parli il linguaggio dell’umanità.

Nella tragedia che si ripete, l’ennesima, in prima fila ci siamo a tutti noi, condannati per aver scelto troppe volte il silenzio omertoso di chi, di fronte alle ingiustizie che non rispondono mai alla casualità, trova solo la forza di scorrere stancamente il dito davanti allo schermo di un telefono dove si rincorrono le ultime notizie delle cronache locali. Eventi davanti ai quali l’assuefazione ha preso il sopravvento, in uno stato di alienazione capace di respingere la terribile idea che quei bambini avrebbero potuto essere i nostri figli.

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