Era il 1973. Filomena era un’anziana del quartiere, orgogliosa dei suoi lunghi capelli, che lei intrecciava e raccoglieva in un gran fazzoletto sulla testa. Era conosciuta da tutti, in Trastevere, anche perché andava in giro tutto il giorno. Forse un po’ ‘svanita’, ma aveva stretto una singolare amicizia con quei giovani che avevano riaperto il piccolo convento di Sant’Egidio dopo che le monache carmelitane se ne erano andate, tre anni prima. Lei aveva cominciato a frequentare il piccolo convento e trovava sempre qualcuno con cui chiacchierare. L’amicizia crebbe e lei, per la sua difficoltà a badare a se stessa, affidò a quei giovani i ‘libretti’ della sua pensione (anche se spesso dimenticava di averglieli consegnati e si lamentava di averli persi).

La sua vita prese una svolta dolorosa quando fu ricoverata contro la sua volontà in un cronicario (cioè un istituto per malati inguaribili, cronici, appunto). I parenti, constatando che non poteva più badare a se stessa e che loro non riuscivano a prendersene cura, avevano preso questa decisione. Appena giunta in istituto, le tagliarono i capelli, di cui andava più che orgogliosa, e la sedarono per tenerla buona. Dopo pochissimi giorni, morì.

Inizia con il racconto drammatico di Filomena il libro L’età da inventare. La vecchiaia fra memoria ed eternità (Piemme) dell’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio e presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana del governo italiano. Un impegno, quello del giovane don Vincenzo e oggi di monsignor Paglia, iniziato proprio da quella triste vicenda di cui fu testimone.

“La morte di Filomena – scrive il presule – ci sconvolse. Il cronicario l’aveva come inghiottita nelle sue spire e portata via in un tempo brevissimo, senza che ci fosse la possibilità di intervenire. Fu una ferita che spinse Sant’Egidio a interrogarsi sulla condizione nella quale versavano tanti altri anziani. Capimmo una cosa fondamentale: senza amore gli anziani muoiono! Nella vicenda di Filomena emergeva la crudeltà di una società che non sapeva amare i suoi anziani. Molti di loro, rinchiusi negli istituti, a volte dei veri e proprio lager moderni, morivano soli, disperati, abbandonati. Soffrendo molto di più del necessario”.

A quasi mezzo secolo dalla storia di Filomena lo scenario purtroppo non è cambiato. “Gli anziani – scrive monsignor Paglia – muoiono per le malattie, ma anche perché non c’è amore per loro! E neppure un pensiero. Sono e restano ai margini della società. Ancora oggi è questa la loro condizione. Non c’è una visione per loro, una politica e una cura adeguate. La pandemia li ha sorpresi così, soli. E li ha travolti”. Una denuncia, quella del presule, che è all’origine della decisione del ministro della Salute, Roberto Speranza, di istituire la Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana e di affidarne la guida proprio a monsignor Paglia. Una scelta benedetta da Papa Francesco.

Alla denuncia del presule, infatti, corrisponde una testimonianza concreta nell’opera di prossimità agli anziani che, fin dalla sua nascita, oltre mezzo secolo fa, è tra i carismi principali della Comunità di Sant’Egidio fondata da Andrea Riccardi. Nel suo volume, monsignor Paglia indica tante strade per vivere l’ultima stagione della vita nella profonda convinzione che “il meglio deve ancora venire”. Lo fa non da una cattedra alta e distante dall’esistenza concreta quotidiana, ma con la saggezza che è propria di chi, proprio come piace a Bergoglio, si sporca le mani ogni giorno nel suo ministero di pastore.

Non a caso il volume si conclude con la Carta per i diritti delle persone anziane e i doveri della comunità delle persone anziane pubblicata proprio dalla Commissione presieduta da monsignor Paglia. C’è un aspetto del testo che merita di essere sottolineato con forza, ovvero il diritto degli anziani ad abitare nella loro casa. Per il presule, infatti, “va contrastato con decisione quel comune sentire che ritiene quasi naturale pensare che chi è vecchio debba finire i propri giorni in una casa di riposo o in un istituto. Questo non è né naturale né normale. Al contrario, normale sarebbe continuare a vivere, e se possibile anche morire, dove si è sempre vissuto, accanto ai propri cari, nella propria casa e nel proprio ambiente”. Parole da tradurre in realtà.

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