di Ilaria Muggianu Scano
Graziano Mesina, tempo fa, mi apre la porta in un’inedita versione charmant, credo sfuggita ai cronisti di ogni angolo del mondo. Si muove sicuro nel suo completo linteo e la sfavillante camicia serica, ai miei occhi di ventenne assetata di storia e di storie.
Ottengo un’intervista all’indomani del mio primo tentativo, un viaggio matto e disperatissimo in solitaria da Cagliari e Orgosolo. Entro in un bar del paese e mi spaccio per turista, chiedo con dissimulato interesse dove abiti la famiglia di Mesina che dal nucleo originario di tredici persone si è ridotto a lui e la sorella. Busso sfatta dal torrido caldo di metà luglio e la dolcissima signora Mesina mi rifocilla con caffelatte e savoiardi. Chiedo del fratello, prego di potergli parlare almeno un quarto d’ora. In realtà mi dedicherà due giornate intere.
Indosso il mio tailleur bianco delle interviste, me lo sono fatta realizzare per l’occasione dalla sarta, mostrandole la foto dell’iconica divisa di Oriana Fallaci: è il mio feticcio, non può andarmi male. Scorgo una sagoma dietro la porta. Graziano per bocca della sorella comunica che mi riceverà il giorno dopo. Mi armo di coraggio, compio il viaggio a ritroso per ripartire all’alba del giorno dopo.
Mesina diventa presto Graziano. Nessuna obsoleta e pruriginosa volontà di dar scandalo. Dialoghi dall’andatura quieta, mai sentenziosi. Per niente stucchevole nel suo pur ostentato brio oratorio. Non manifesta pretese apologetiche e non persegue il facile sensazionalismo truculento e spettacolare nel raccontarsi, neppure ricordando la rocambolesca impresa di provocarsi un’epistassi per sfilarsi le manette e gettarsi da un treno in corsa che gli assicurerà una rischiosissima evasione durante il trasferimento dal penitenziario di Sassari, ma non più azzardata di altre. O, ancora, riuscire a farla franca con indosso un insospettabile talare calandosi dal muro di cinta del carcere sassarese.
La tela di fondo del mio colloquio con Graziano, dalle cadenze investigative dell’umano, è contrappuntata dal rimpianto quietamente feroce di non esser riuscito a compiere scelte diverse: “Attribuisco i fenomeni sismici della traballante società odierna a quel suo incentivare e valorizzare comportamenti troppo individualisti. Da soli è difficile lottare per un futuro migliore quando non ti è garantito dal destino, se ti trovi a vivere una vita che ti dà poco e ti toglie tanto. La scarsità di alternative, vissuta in modo solitario, innesca un circuito di sbagli. Se fossi nato in un contesto sociale diverso non sarei diventato un bandito. Avrei studiato. Oggi sarei un medico”.
Per Graziano Mesina la scaturigine di ogni ferita sociale era la cosciente e disperante assenza di un lavoro: “Ieri un impiego fisso poteva evitare di cadere in quelle trappole dell’esistenza che innescavano reazioni a catena interminabili. Si partiva dall’abigeato, che generava inevitabilmente una vendetta che a sua volta originava la faida. Perciò, il passaggio dalla scarsità di offerte alla disoccupazione, all’emarginazione, era la matrice di un vagare continuo. Un passare da un bar all’altro, senza scopo. Ecco, pensavo, è dalla noia che scoppia la rabbia”.
Incontro Graziano Mesina dopo quarant’anni di carcere e azzardo la domanda più banale di tutte, che incontra una risposta che ha il potere dell’irripetibile: “Non ho mai visto nessuno recuperato dal carcere ma credo nella giustizia. Ho sempre avuto il senso della giustizia, fin da bambino. Da questo nasce il mio forte senso di ribellione alle angherie, a qualsiasi livello. Mi veniva data la caccia come ad un safari in Kenya, e dovevo esser giudicato, alcune volte, da chi aveva commesso ogni genere di nefandezza. È stata la solidarietà, la mia capacità di empatia a farmi tenere l’equilibrio. In quel periodo gli anelli più fragili della catena mi eleggevano come guida perché mi spendevo per proteggerli dai soprusi. Questo non piaceva ai piani alti e pensavano di dovermi blandire per tenermi buono. Ma non avevo bisogno di questo”.