Potevano essere rom, bulgari, rumeni, nigeriani o di qualsiasi altra etnia. Birka e Christian, i due bimbi di 4 e 2 anni, morti carbonizzati nella baraccopoli di Stornara, in provincia di Foggia, non sono vittime di segregazione razziale. E non sono morti di “campo nomadi”. Pare che non fossero neppure rom ma appartenenti a una delle tante famiglie bulgare che insieme ai rom strappano la loro vita sui campi pugliesi. Sono vittime di un pezzo dell’economia del nostro paese basata sullo sfruttamento spietato di persone disperate. E se vogliamo cercare la chiave di lettura nella ricerca di soluzioni non la troviamo nel “campo nomadi”. Per questo sbagliano gli attivisti rom e pro rom a dire che sono morti di “campo nomadi”.

Quanto superficiale e strumentale è la volontà di estrapolare quel “campo” dal contesto nel quale è cresciuto. Quanto è disonesto fare finta che non esistano luoghi analoghi, a pochissimi chilometri da quel “campo”, non di rom, ma di africani, uguali identici, non solo per condizioni materiali nelle quali vivono migliaia e migliaia di persone di ogni etnia, ma anche per il livello di disperazione umana, che sono il prodotto non della secolare persecuzione nei confronti di rom e sinti, ma di uno dei cancri peggiori del nostro paese, ormai in uno stato di metastasi avanzata – la schiavitù strutturata, il consolidamento tra una grande parte dell’economia agricola, soprattutto del Sud Italia, e le mafie, straniere e autoctone e il caporalato.

Quanto la facciamo facile in questo caso gridando al razzismo e all’apartheid, o i media, che spesso non guardano oltre il fatto di cronaca e si accontentano di alimentare indignazione a tempo e un tanto al chilo, sollevati che il fatto si può attribuire a cose di “rom”. Quanto la rendiamo facile ai politici che se la cavano con due dichiarazioni e un dolore più o meno sentito, ma dimenticato dopo un giorno, giustificandosi soltanto perché non hanno sgomberato, senza dover rispondere di quell’altro cancro, troppo scomodo perché tocca interessi economici così grandi, e così pericolosi per il consenso politico in quelle zone d’Italia.

Cerchiamo di distinguere e di capire le origini e il contesto dei mali diversi che ci colpiscono, per poterli combattere meglio. Non buttiamo tutto nello stesso calderone, distinguiamo, almeno noi, tra diversi fenomeni che ci colpiscono, la segregazione razziale, le conseguenze della povertà estrema, tradizioni e volontà di vivere in modi diversi e comunitari… Tutti questi sono fenomeni diversi, presenti in luoghi e situazioni diversi, e cercano risposte e proposte diverse. Se impariamo a non generalizzare, a riconoscerli e ad ascoltarli, a guardare situazione per situazione senza fare di ogni erba un fascio, ci risparmieremo la vergogna di aver anche noi contribuito alla criminalizzazione dei luoghi e delle persone che ci vivono.

Almeno noi, togliamoci i paraocchi che ci impediscono di vedere e di essere cittadini e non solo “rom” o “difensori dei rom”, non usiamo tragedie di questa portata per tirare l’acqua al nostro mulino, per affermare i nostri principi e ideologie. In questo caso specifico la segregazione razziale non c’entra nulla, tanto meno si possono equiparare queste baraccopoli ai “campi nomadi”. Per quanto riguarda questi ultimi impariamo ad ascoltare chi ci abita, a riconoscergli il diritto di parlare, di dire quello che è il loro punto di vista e quindi di essere soggetti e non oggetti di questa o quella amministrazione o associazione.

In questo caso specifico combattiamo insieme a un pezzo grande e importante della nostra società una battaglia che riguarda anche i rom, ma migliaia e migliaia di migranti da ogni parte del mondo che arrivano da ogni tipo di tragedia, e molti italiani in povertà, uomini, donne e anche bambini. Combattiamo per i diritti dei braccianti, contro lo sfruttamento del lavoro e contro la schiavizzazione delle persone che lavorano 12 ore al giorno per pochi spiccioli, senza nessun diritto e senza nessun accesso ai servizi pubblici, carne umana sulla quale ci guadagnano tutti, a partire dai caporali passando da mafie e malavita organizzata, alle aziende agricole e alla politica che non agisce, per finire a noi che compriamo a prezzi competitivi i pelati per la nostra pastasciutta contenti di mangiare “italiano”.

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