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Kabir Bedi: “La mia carriera è cominciata quando intervistai i Beatles. La mia famiglia? Un’altra parte della mia vita: mio padre ha guarito molti malati gravi”

Nella biografia dell'attore ecco il taglio intimo, personale, profondo che non t’aspetti. C’è sì il glamour dello showbiz, ma anche i tanti e difficili rapporti di cuore, gli anni dei fallimenti finanziari, il dramma del figlio suicida, la spiritualità tramandata tra genitori e figli presente ancora oggi nella sua esistenza

di Davide Turrini

C’è un biopic che vive di grazia e di umanità come nessun’altro. S’intitola Storie che vi devo raccontare (Mondadori) e l’ha scritto Kabir Bedi. Il Sandokan che fece sfracelli nazionalpopolari su Rai1 nell’inverno del 1976 registrando 27 milioni di telespettatori in media su sei episodi, diventando il programma più seguito nella storia della tv italiana. Bedi, oggi 75enne, è nato a Lahore ancora in India nel 1946 (oggi in Pakistan) e ha avuto una carriera luminosa di oltre quarant’anni incontrando le grandi produzioni di Bollywood e Hollywood. Insomma, una star. Eppure nell’approcciarsi alla propria biografia ecco il taglio intimo, personale, profondo che non t’aspetti. C’è sì il glamour dello showbiz, ma anche i tanti e difficili rapporti di cuore, gli anni dei fallimenti finanziari, il dramma del figlio suicida, la spiritualità tramandata tra genitori e figli presente ancora oggi nella sua esistenza. “Il dolore e la gioia, il tormento e l’estasi sono inestricabilmente intessuti nella mia vita e li voglio condividere con voi”, spiega Bedi nella prefazione della biografia. “In italiano il sottotitolo è “la mia avventura umana” mentre in inglese è “the emotional life of an actor”, aggiunge Bedi in collegamento dall’India con FQMagazine. “Questo libro riguarda le relazioni sentimentali e professionali che ho vissuto ma raccontate dal profondo del mio cuore”.

Il primo capitolo è folgorante. A nemmeno vent’anni intervistò i Beatles. Lei è una tra le poche persone al mondo ad averlo fatto…
“Era il 7 luglio del ’66. Lo ricordo ancora come fosse ora. Lavoravo per All India Radio a Delhi. E i Beatles facevano tappa lì dopo un ‘incidente diplomatico’ accaduto a Manila, nelle Filippine. Ai giornalisti venne detto che i Beatles sarebbero usciti dalle cucine e tutti si precipitarono lì. Io invece insistei entrando dalla hall e lì incontrai il manager Brian Epstein. Gli dissi che il governo aveva fissato un’intervista con loro. Ma si arrabbiò. Disse che la volle fare lui. Ma quando entrai mi ritrovai davanti i fab four. Li intervistati uno a uno, nel libro lo racconto”.

In Italia si canta spesso la strofa “Chiedi chi erano i Beatles”…
“Nel mezzo della mia crescita personale hanno rappresentato per me una musica rivoluzionaria. Prima ascoltavo Nat King Cole, Frank Sinatra, Elvis. Ma nessuno è stato quello hanno rappresentato i Beatles. In loro c’erano tutti i cambiamenti sociali e culturali in atto negli anni 60: chi protestava contro la guerra in Vietnam e a favore della pace, c’erano gli hippy, c’era la rivoluzione sessuale. Stava cambiando il mondo e a cambiarlo c’erano i Beatles”.

Tra l’altro questa intervista le ha cambiato la vita, proprio a livello di folgorazione professionale…
“Certo. La radio mi diede un registratore di quelli dell’epoca e io arrivai lì con il mio badge. Tra l’atro quell’intervista nemmeno è stata salvata in archivio. Ci registrarono sopra un altro programma. Ad ogni modo all’epoca non avevo soldi in tasca e dopo i Beatles mi trasferii a Bombay proprio per imparare a recitare. Attenzione però: non è stata la vita che molte persone immaginano. Ho avuto trionfi tremendi, ma anche tragedie terribili, grandi amori, grandi perdite, cadute e resurrezioni”.

In quanti film ha recitato?
“Tra film tradizionali, mini serie e telefilm oltre novanta. Poi ci sono le opere teatrali e la radio”.

Può spiegarci le differenze tra il sistema cinematografico di Bollywood, poco celebrato e visto in Occidente, e quello di Hollywood?
“Ce ne sono di grosse. La più evidente è che nei film bollywoodiani si usa la danza come forma di storytelling quindi in mezzo al dramma, all’azione, alla comicità partono lunghe e ricche sequenze di musica e ballo. È un aspetto peculiare che si è distinto fin da subito, un po’ come è stato il teatro kabuki per il cinema giapponese. Il mercato di Bollywood, tra l’altro, è imponente con oltre un miliardo di spettatori solo in India e si allarga in Israele come in molti paesi dell’Africa. Nella pratica ci vuole molto per girare un film bollywoodiano: ci si ferma spesso, si gira qualche giorno questo mese, qualche giorno quell’altro. Non c’è la tradizione di girare un film dall’inizio alla fine senza pause come nelle produzioni di Hollywood. Altra cosa simpatica, le star vivono un rapporto particolare e diretto con la musica, perché questa, soprattutto nel sud dell’India, unisce ed è naturale cantare tutti insieme, consolida il senso di comunità”.

Torniamo al 1974. A Mumbai, in India sbarca un piccolo gruppo di produttori italiani alla ricerca di un attore con la barba per interpretare un certo Sandokan…
“Emilio Salgari lo descriveva così, c’erano pure illustrazioni nella prima edizione del romanzo. Era un immaginario pirata asiatico che combatteva contro i coloni inglesi e per liberare il suo popolo. Da lì iniziò una carriera internazionale incredibile per un attore indiano. Ringrazio Sergio Sollima, il regista della serie perché aveva immaginato quell’opera nei dettagli, l’aveva progettata poi l’ha diretta e ha voluto nel film persone che ci credessero (incluso me): l’art director Nino Novarese, poi i fratelli De Angelis alle musiche. Ha voluto il meglio, non lo dimenticherò mai.

Poi c’è l’arrivo a Fiumicino che è storia…
“All’epoca c’erano comunicazioni pessime. Non c’era il fax e la comunicazione avveniva con telefonate che dovevi prenotare. Un giornalista che conoscevo mi invitò a prendere un aereo e a andare in Italia perché tutti parlavano di me. Pensavo che nessuno mi aspettasse, ma mentre scesi la scaletta dell’aereo iniziarono a scattare decine di flash. Ricordo che mi girai d’istinto cercando di capire chi ci fosse dietro di me di così importante da fotografare. Non c’era nessuno. Erano lì tutti per me. È stato il mio momento magico. Si era creato uno speciale feeling con il pubblico italiano nonostante migliaia di chilometri di distanza”.

Le è mai capitato di pensare mollo tutto sul set di Sandokan?
“No, mai. Girammo in Malesia. Certo fu un lavoro fisicamente stancante, ma non fu difficile perché spinsi attraverso il pensiero a credere che il mio corpo e la mia mente fossero davvero. Questo processo mi diede una grande energia e anche le difficoltà vennero superate. Fu una grande avventura”.

Nel tour improvvisato di promozione di Sandokan in Italia molti divi vollero incontrarla. Il primo fu Federico Fellini con la moglie Giuletta Masina.
“Ero un fan di Fellini. Una notte in un cinema indiano vidi una maratona con tutti i suoi film. Quando lui mi chiese di incontrarmi fu come se si ripetesse la storia dei Beatles: non pensavo potesse mai succedere. Sembrava di essere in suo film. Eravamo nel baracco Grand Hotel di Roma e pranzammo. Fece grossi complimenti alla mia fidanzata di allora, Parveen.

Il successivo incontro tra lei, Perveen e Gina Lollobrigida non andò benissimo…
“Venimmo invitati a casa sua in mezzo ad altri amici. Lei mi prese da parte e volle parlarmi di tutto il suo amore per le cose asiatiche. Parveen era piuttosto arrabbiata di tutta questa attenzione. Successivamente andammo in un ristorante dove c’era anche una pista di ballo dove Gina mi trascinò in un istante. Parveen non era proprio d’accordo, anzi quando Gina le rivolse la parola trattandola come un’accompagnatrice lei rispose con rabbia: “No cara, sono con il mio uomo, perché io un uomo ce l’ho”

Poi incontrò Sergio Leone…
“La sua villa sembrava una fortezza. Guardie armate ovunque con mitragliette a tracolla. Era l’epoca della paura delle Brigate Rosse. Terrorizzavano chiunque e Sergio aveva paura che rapissero qualcuno dell’industria del cinema. Mi parlò moltissimo di un progetto che poi divenne C’era una volta in America”.

Il capitolo in cui parli dei tuoi familiari è molto profondo e toccante.
“È un’altra dimensione della vita più meditativa e spirituale. I miei genitori sacrificarono la parte iniziale della loro esistenza per la lotta di libertà contro gi inglesi. Mia madre incontrò anche Gandhi. La cosa incredibile fu però come il loro approccio politico della vita passò dall’aspetto rivoluzionario a quello religioso. Entrambi da adulti poi da anziani hanno trovato nuovi spazi dove sopravvivere. Mia mamma è diventata una delle più importanti suore buddiste al mondo e si è occupata anche di rifugiati; mio padre ha scoperto di avere capacità psichiche che avrebbero fatto del bene all’umanità. Guarì molti malati gravi con una “terapia vibrazionale”. A un certo punto della sua vita gli ho chiesto se c’erano contraddizioni tra l’impegno politico e quello spirituale. Lui rispose di no perché tutto è fatto per il bene delle persone”.

L’aspetto spirituale dei suoi genitori l’ha trasformato mentalmente?
“La spiritualità appartiene comunque alla mia tradizione religiosa sick. Nella vita sono stato anche protestante, pensate un po’. Poi certo, mentre vedevo i benefici del loro percorso spirituale ho cercato di capire che senso avesse e quale fosse la verità per me. Ogni religione dona un senso di comunità e di credo. In questo viaggio alla ricerca della verità ho incontrato chi mi ha parlato di destino, altri di vita dopo la morte, alcuni mi hanno parlato di un dio altri di più dei. La verità dell’esistenza è una ricerca che possiamo trovare ovunque e declinata in più modi”.

Nel libro approfondisci molto anche i tuoi rapporti sentimentali, in particolar modo quelli avuti e che nonostante la morte, il dolore, il tempo continui ancora ad avere con le tue mogli.
“Sono donne che mi hanno donato tutte incredibili esperienze amorose. In questo capitolo del libro ho voluto cercare il senso delle scelte fatte. Ho spiegato anche cosa è successo quando ho seguito a strada di un matrimonio aperto o negli alti e bassi della vita. Parveen, ad esempio, l’ho amata profondamente sia quando soffriva di problemi mentali sia quando diventò un’attrice di successo. Nessuno sa cosa accadrà tra un uomo e una donna che si amano. Cerchiamo tutti consigli, ne diamo, ma alla fine siamo esseri umani, viviamo tutti il gioco improvviso delle emozioni”.

Lei rischiò la vita, tra l’altro, sul set de Il Corsaro Nero…
“Girammo nei Caraibi. Eravamo a Cartagena in Colombia. E lì gli spagnoli che avevano occupato la città nel passato avevano costruito una enorme fortezza difensiva e nel golfo davanti ad essa avevano disseminato ulteriori costruzioni difensive poi finite in rovina. C’erano molte scene di battaglia da girare sopra la nave del protagonista. Questo galeone però non era una vera barca, ma era sormontata da una sovrastruttura di scene ed era trainata da un rimorchiatore per dare l’idea del movimento in mare aperto. Un giorno il pilota inesperto del rimorchiatore ci fece finire contro la struttura difensiva spagnola e la nave affondò. Non c’erano scialuppe e in pochi minuti tre quarti di nave erano sott’acqua. Abbiamo avuto molta paura. Io ne ebbi ancor di più mentre giravo un’altra scena in cui finivo in acqua. Non riuscii a togliermi gli stivali in tempo e si riempirono di acqua in pochi istanti. Pesavano come pietre e nonostante le gran bracciate mi sentivo trascinare sul fondo. Fu un momento molto drammatico”.

Lei è stato il primo attore indiano ad interpretare un film – Octopussy – della saga di James Bond…
“L’aspetto curioso è che molte sequenze del film furono girate in India. Una in particolare di azione tra me e Bond, un affabile Roger Moore, venne girata in tre posti diversi. Quando saliamo in aereo siamo in Indi, la lotta sopra l’aeroplano l’abbiamo girata a Londra; la lotta finale negli studios americani. La magia del cinema insomma”.

Nel libro ha definito Hollywood un sistema di caste come quello della società indiana…
“Oserei dire che è come una fortezza: ognuno aveva una stanza e gli attori vivevano in quelle più in basso. Ebbi subito grandi problemi nell’ottenere ruoli per un attore come me. Sono stato un tuareg in Ashanti con Michael Caine, un principe marocchino, poi ho interpretato un tedesco, un arabo, ma mai il ruolo di un indiano se non in James Bond. Curioso, no?”

Poi c’è stato il sorriso della principessa Diana…
Uno dei vantaggi dell’essere attori in un film di James Bond è quello di poter partecipare alle premiere mondiale londinese del film. Ma fu come un piccolo incidente diplomatico perché il principe Carlo mi stava stringendo la mano destra e intanto aveva accennato al suo ricordo dell’India. Nello stesso istante la principessa mi prese la mano sinistra e me la strinse regalandomi un sorriso abbagliante. Ero imbarazzato e in confusione. Carlo se ne accorse e obbligò la moglie a seguirlo andando oltre. Lei emanava uno splendore che non dimenticherò mai”.

L’Italia oltre a Sandokan le ha dato anche la partecipazione alla seconda edizione de L’isola dei famosi. Ci sveli un segreto: tutte le cose accadute lì sono vere?
“Sì, confermo. Se non vincevi contest non mangiavi. C’è però una cosa buffa che mi è accaduta. Quando eravamo davvero affamati, ma davvero affamati, magicamente sono apparse noci di cocco sulla spiaggia”

Kabir Bedi: “La mia carriera è cominciata quando intervistai i Beatles. La mia famiglia? Un’altra parte della mia vita: mio padre ha guarito molti malati gravi”
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