Fare storia di genere non è sinonimo di fare storia delle donne. A partire dagli anni Settanta e in modo sempre più approfondito tra anni Ottanta e anni Novanta, molte studiose hanno articolato diverse riflessioni in merito. Un riferimento più esplicito alla categoria del genere si è affermato con la pubblicazione nel 1986 di un saggio della storica Joan W. Scott, Gender: a useful category for historical analysis, apparso per la prima volta tradotto in italiano sulla Rivista di storia contemporanea nel 1987. L’autrice utilizza il concetto di genere per riferirsi alla costruzione sociale dei sessi e delle relazioni tra i sessi; ai rapporti di potere che si creano e alle relative trasformazioni nei diversi periodi storici e contesti geopolitici.
La prospettiva di genere può dunque permettere di leggere alcuni aspetti della costruzione sociale del potere all’interno di tanti campi, nondimeno in rapporto alle formulazioni giuridiche, che non appartengono a terreni di presunte neutralità ma che sono esse stesse frutto di rapporti di forza e processi di marginalizzazione sociale e culturale.
Oggi è il 22 dicembre e questo stesso giorno, nel 1947, venne approvata la Costituzione italiana, che sarebbe poi stata promulgata il primo gennaio 1948. Una più ampia riflessione sul testo costituzionale in rapporto alla condizione femminile è piuttosto recente, tanto che il primo testo marcatamente centrato su questi temi è stato pubblicato nel 2007 ed è il bel libro della studiosa Marina Gigante, I diritti delle donne nella Costituzione. Manca una riflessione più diffusa intorno alla radicata subalternità delle donne nel campo del diritto civile come di quello sociale, che intreccia altre complessità come l’appartenenza etnica e di classe e che, più in generale, si lega a un’idea culturalmente egemone di una qualche specificità “naturale” della donna e dei suoi ruoli.
In particolare, c’è un articolo nella nostra Costituzione che ci può dire molto se letto attraverso la categoria del genere e in prospettiva storica, ossia l’articolo 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Occorre in particolare fare attenzione ai riferimenti alla “funzione familiare” femminile e al suo carattere “essenziale”.
Alessandra Gissi, docente in storia contemporanea all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, nel corso delle sue ricerche ha a fondo riflettuto su questo punto, scrivendo alcuni saggi scientifici in merito: “In questo articolo si eleva a destino una differenza originaria da conservare e tutelare e in nome di essa i costituenti rischiano di entrare in contraddizione con il principio di uguaglianza enunciato nell’articolo 3 della Costituzione stessa. Non si può non notare come l’aggettivo essenziale rimandi a una necessità e contemporaneamente a un’essenza, a una natura. L’aggiunta di un simile aggettivo alle parole funzione familiare della donna pone quest’ultima come obiettivo esplicito e preminente”.
Gissi fa notare l’interessante dibattito alla base di questo articolo che vede posizioni difformi tra cattolici, destre e sinistre del Paese, ma che trova tante tensioni anche all’interno del movimento operaio. La contraddizione che emerge nel cercare di rendere possibile la conciliazione dei compiti familiari dipinti come “essenziali” con quelli del lavoro viene avvertita anche dai costituenti stessi. La formula dell’essenzialità viene proposta dal democristiano Aldo Moro come alternativa alla proposta di Giorgio La Pira, anch’egli democristiano, che suggerisce di qualificare come prevalente la funzione familiare delle donne in quanto “la vita di una madre di famiglia è interiorizzata nella casa e non può essere espletata dall’uomo”. Si opta però per il termine essenziale per evitare accenti gerarchici sulla “questione della superiorità di una missione di fronte all’altra”. Maria Federici Agamben, democristiana, nota come “molto spesso è la stessa donna lavoratrice a svalutare in qualche modo il suo lavoro” che “ritiene secondario, semplicemente integrante”; mentre Lelio Basso, socialista, torna sul termine essenziale, da eliminare poiché ritiene “che la missione dell’uomo nella famiglia sia altrettanto essenziale quanto quella della donna”.
Nilde Iotti, comunista, si focalizza sul lavoro extradomestico, richiamando il mito di una facile conciliazione, molto presente a sinistra: “Solo realizzando nella pratica il suo diritto al lavoro la donna acquista quella indipendenza, base di una vera e compiuta personalità, che le consente di vedere nel matrimonio non più un espediente talora forzato per risolvere una situazione economica difficile e assicurarsi l’esistenza, ma la soddisfazione di una profonda esigenza naturale, morale e sociale, e lo sviluppo e il coronamento, nella libertà, della propria persona”. Per i cattolici, la centralità stessa che essi assegnano alla famiglia rende più acuta ed evidente la contraddizione, e li induce inevitabilmente a privilegiare la specificità e lo testimonia la battaglia intrapresa per l’introduzione del salario familiare, che consentirebbe al lavoratore non solo di vivere dignitosamente ma anche di formare, allevare, educare, mantenere una famiglia.
Gissi a ilfattoquotidiano.it sottolinea che emerge “una dicotomia interpretata come naturale, secondo la quale nella sfera pubblica risiede la dimensione produttiva del lavoro, mentre nella sfera privata quella riproduttiva. Anche il lavoro riproduttivo però è tutt’altro che naturale e la sua costruzione e assegnazione femminile è un fenomeno complesso, non omogeneo e analizzabile parallelamente alle principali trasformazioni politiche ed economiche del Paese, di cui si può prendere ben nota nel passaggio tra fascismo e Repubblica. Durante i primi anni Trenta, il regime comincia a occuparsi delle casalinghe con un preciso obiettivo politico in mente: consolidare la gerarchia dei generi all’interno della famiglia e sfruttare al meglio le risorse del lavoro domestico”.
È interessante in questo senso notare le ambiguità del dibattito sul salario per il lavoro domestico. Durante il fascismo, per estrarre maggiori risorse dal lavoro domestico si inizia infatti a pensare che il lavoro delle casalinghe debba fuoriuscire dalla sfera privata grazie a un riconoscimento sociale come occupazione regolare. E in effetti i vari progetti discussi (e mai realizzati) dai fascisti per concedere un salario alle casalinghe rientrano nell’ambito di misure propagandistiche messe in atto per riconoscere l’importanza economica del lavoro domestico. Il modello di casalinga cui si riferiscono i fascisti è però quello delle donne dei ceti medi urbani, in particolare quelli impiegatizi, tanto che alle donne contadine viene presentato un modello di domesticità diverso, quello della massaia rurale. Le casalinghe borghesi hanno il compito primario di consolidare il modello virilista del regime e di assicurare alla famiglia un decoro che distingua i ceti medi da quelli operai e contadini. Tutta questa elaborazione “mantiene un’ambiguità di fondo – dice Gissi – tra il riconoscimento sociale, lo spazio del privato, le funzioni dello Stato, la competenza e soprattutto la predisposizione naturale”.
Si notano i tanti livelli del problema: gerarchie politiche e sociali intrecciano gerarchie di genere, sia attraverso l’azione istituzionale, sia radicandosi culturalmente sulla base di una narrazione che naturalizza la condizione della donna nello spazio domestico (e non solo). Il posto della donna nella società viene immobilizzato ancorandolo a un’essenzialità, una predisposizione femminile che, altrettanto radicalmente, rende accettabili le dinamiche di potere che si creano. Dinamiche di potere che declassano comunque le possibilità di affermazione femminile, ma che risultano nel concreto ben diverse se si è donna bianca borghese o – al polo opposto e con molte sfumature in mezzo – donna nera di classe subalterna.
Un’altra più nota esperienza risale agli anni Settanta. Occorre considerare che nel secondo dopoguerra la dinamica tra i generi è ancora largamente basata sulla centralità della vocazione domestica delle donne e le politiche sociali sono altamente carenti in termini di servizi alla famiglia. Arrivando al 1968 questo sistema viene seriamente messo in discussione e nel 1974 si forma il “Gruppo per il salario al lavoro domestico” e la questione del salario alle casalinghe diventa cruciale e si ribalta di segno. Questa campagna si diffonde rapidamente in Inghilterra e Nord America e porta alla fondazione di uno dei primi movimenti sociali transnazionali, Wages for housework Groups and Committees, che spinge una critica dello stato sociale come protettore e garante della divisione sessuale del lavoro. Emerge l’idea che un salario per le casalinghe possa essere uno strumento utile anche se parziale, contro la naturalizzazione del loro ruolo e per ottenere minor sfruttamento e maggiore potere sociale.
Tuttavia Gissi ci fa notare quanto la questione restasse delicata e, in un dibattito organizzato dalla rivista femminista Effe sul tema, è possibile scorgere alcune delle più problematiche questioni attraverso la testimonianza di Lidia Menapace, per cui il rischio di “finire in soluzioni individualistiche” esiste, perché “certamente non in questo momento di crisi, e non a livello planetario, ma in un punto alto dello sviluppo capitalistico non è affatto escluso che lo Stato trovi opportuno pagare un salario alle casalinghe, rafforzando così la funzione conservatrice della famiglia”.
Inoltre, in quegli stessi anni, persino i femminismi, nonostante l’intenso rapporto con il black feminism, finiscono per non individuare molte delle linee che segmentano le casalinghe – come l’appartenenza di classe – e soprattutto non viene posta attenzione al rapporto tra crescita del lavoro extradomestico e progressivo trasferimento di questi compiti alle donne immigrate, dove agiscono altre linee di segmentazione, ad esempio quella della “razza”.
La questione specifica dell’immigrazione femminile legata al lavoro domestico rappresenta un altro tema importante, spesso pensato come risalente agli ultimi anni ma, in realtà, molto cospicuo in Italia già a partire dagli anni Cinquanta, come testimoniano i dati, in contrasto all’eccesso retorico da Paese di emigrazione. In tal caso il lavoro domestico risulta salariato ma, nondimeno, risaltano come evidenti altre forme di marginalizzazione economica, sociale, politica e culturale.
In qualche modo sembra, partendo dall’articolo 37 e dalla “essenziale funzione familiare della donna”, che le diverse espressioni storiche del rapporto tra donna, lavoro e spazio domestico abbiano seguito e stiano continuando a seguire percorsi di marginalizzazione che si muovono tra tanti equilibri che si creano tra la condizione di genere, di classe, di “razza”. Potrebbe forse servire riflettere di più sul forte radicamento dell’idea del ruolo naturale della donna nello spazio della casa poiché, quando anche qualcuna ne esce, sembrano restare come preminenti le basi di una devalorizzazione sia del lavoro femminile, sia del lavoro domestico. Il primo non sembra riuscire a raggiungere un sufficiente grado di emancipazione e tutela, rimanendo sostanzialmente legato alla più o meno conscia idea radicata e diffusa della donna come “angelo del focolare”. Il secondo, quando non gravante su donne che già svolgono lavoro extra domestico, intreccia altri percorsi di sfruttamento che coinvolgono principalmente le donne immigrate e di classe subalterna, inserite in un complesso sistema di “catene globali della cura” e di “razzializzazione del lavoro di cura”, instabile, precario e spesso invisibile nel dibattito politico, anche femminista. “La questione – conclude Gissi – merita ancora interesse perché chiama in causa elementi dati per connaturati, magari adesso non più a tutte le donne ma solo ad alcune, alle domestiche soprattutto se straniere. Ciò anche quando la sfera domestica rappresenta il tassello di un complicato progetto migratorio e implica rapporti di lavoro retribuiti in cui aspetti economici e non economici sono intrecciati. Serve tornare a pensare con forza il rapporto tra donna, lavoro, casa. Questo è inizialmente divenuto nell’elaborazione teorica e nella pratica femminista esplicitamente un agone politico, ma senza problematizzare alcune linee di frammentazione come quella legata al colore. Adesso poi tali processi stanno tendendo a riaffermarsi come temi del privato, soprattutto quando riguarda la vita e il lavoro di domestiche straniere, che divengono i nuovi soggetti marginali centrali nella costruzione di rapporti di potere lungo le linee della ‘razza’, della classe e del genere, perennemente escluse dal dibattito politico”.
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Nell’immagine alto: Le stiratrici di Edgar Degas (1884, Museo d’Orsay) – Una manifestazione di lavoratrici negli anni Settanta