Era ormai inevitabile, dopo gli annunci sull’alto numero di candidati non ancora analizzati, ma oggi è diventato ufficiale il rinvio delle elezioni in Libia fissate inizialmente per il 24 dicembre. A rendere noto lo spostamento di un voto considerato fondamentale per il futuro di un Paese martoriato da dieci anni di guerra civile e instabilità politica è stata proprio l’Alta Commissione nazionale per le elezioni che adesso attende di conoscere la nuova proposta di data che dovrà arrivare dalla Camera dei Rappresentanti, anche se i delegati hanno ipotizzato la proroga di un mese delle valutazioni sui nomi dei candidati, portando la data della chiamata alle urne al 24 gennaio prossimo.
“Il processo di verifica delle domande dei candidati (5.385 in totale) è in fase di completamento e revisione finale”, hanno comunque fatto sapere. La Commissione emetterà la sua decisione in merito all’annuncio delle liste preliminari “non appena arriveranno le risposte dei nostri partner nel processo di audit e nella la misura in cui sono applicabili le condizioni di candidatura previste dalla legge”, dopodiché “sarà avviata la fase dei ricorsi“, si aggiunge in una nota.
Ma quello della data del voto non è certo l’unico o il principale problema legato alle elezioni libiche. La Commissione sa bene che da ciò che uscirà dalla sua revisione finale dipende la stabilità dell’intero Paese già prima della chiamata alle urne. Tutti e tre i principali nomi in lizza per la presidenza hanno elementi di incandidabilità. Sulla figura del generale Khalifa Haftar pesa l’offensiva su Tripoli del 2019 con la quale tentò di rovesciare l’allora Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj. Su Saif al-Islam Gheddafi, figlio ed ex braccio destro del Raìs Muammar Gheddafi, pende addirittura un mandato d’arresto internazionale da parte della Corte Penale de L’Aia per crimini di guerra. Mentre per l’attuale premier Abdul Hamid Mohammed Dbeibah la questione è puramente formale: la legge elettorale libica attualmente in vigore prevede infatti che ogni candidato debba dimettersi da cariche politiche e militari almeno tre mesi prima della data delle elezioni, cosa che Dbeibah ha fatto però solo nelle ultime settimane. Un rinvio a breve-medio termine potrebbe aiutarlo, ma proprio in seguito allo spostamento del voto ha deciso di riprendere il suo posto alla guida del governo di unità nazionale, finora lasciata in mano al suo vice. Situazioni, queste, che fanno temere per la sicurezza del Paese in caso di vittoria di ognuno di questi candidati.
Intanto le manovre alle spalle, ma non troppo, dell’attuale esecutivo sono già in corso. In questi giorni si è assistito a una vera e propria processione di leader, dall’ex primo ministro Ahmed Maitig all’ex ministro dell’Interno Fathi Bashagha, che si sono recati in visita da Haftar per discutere di come affrontare il vuoto politico post 24 dicembre, viste le dimissioni di Dbeibah. A questo tentativo di esautorarlo e piazzare alla guida del governo un uomo lontano dalle posizioni dell’attuale premier ha risposto lo stesso Dbeibah riprendendo velocemente il proprio incarico, ricreando contemporaneamente lo stesso cortocircuito sulla candidatura di una persona che ricopre ruoli istituzionali.
E queste mosse sono costate al primo ministro i primi attacchi da parte del leader di Ihya Libya, Aref Nayed: “Il motivo principale del rinvio è il fatto che il primo ministro di un governo ad interim, che era stato specificamente autorizzato a preparare le elezioni, dopo essersi impegnato a non concorrere ha improvvisamente deciso di candidarsi, spendendo fondi pubblici per la propria campagna e manipolando i ministeri a suo vantaggio, incluso il rilascio di una falsa certificazione universitaria”, ha attaccato. “Tale flagrante conflitto di interesse è la ragione stessa del rinvio. La violazione da parte del primo ministro dei suoi impegni e delle sue promesse rischia di far deragliare l’intero processo politico e di istigare disordini e persino conflitti armati”. Il rischio legato a questi “giochetti”, ha poi concluso, è quello di far aumentare le “possibilità concrete di disordini civili e anche di conflitto”.