Politica

Draghi al Quirinale, la strada diventa in salita. Tra paura del voto anticipato e insofferenza per l’autocandidatura: il gelo dei partiti

Per la prima volta in carriera l'ex dirigente generale del Tesoro non dovrà essere scelto per le sue indiscutibili qualità: dovrà essere votato. Dopo le aperture di ieri, però, probailmente il capo del governo si sarebbe aspettato un reazione diversa da parte delle forze politiche che dovrebbero eleggerlo al Colle. Invece il sentimento diffuso nei ranghi dei partiti è d'insofferenza e di fastidio dopo le dichiarazioni del premier

Non è una discesa, ma forse neanche un percorso pianeggiante. La strada per condurre Mario Draghi al Quirinale rischia di trasformarsi in una salita. Quanto ripida non è al momento dato sapere. E’ un fatto, però, che dopo le evidenti aperture del premier durante la conferenza di fine anno, la reazione dei partiti è stata gelida. Per la prima volta, infatti, il capo del governo ha rotto ogni ambiguità, spiegando che lui si considera “un nonno al servizio delle istituzioni” e il suo governo può andare avanti senza di lui, a patto di arrivare a fine legislatura. Tradotto: Draghi vuole andare al Colle mentre il governo di unità nazionale può continuare con qualcun altro al suo posto. Da capo dello Stato, poi, l’attuale premier non intende sciogliere le Camere: un messaggio che – nelle intenzioni di Draghi – doveva servire a rassicurare le forze politiche: dalla Lega ai 5 stelle, passando da Forza Italia e il Pd, tutti i partiti (tranne Fratelli d’Italia) sono praticamente atterriti dal rischio di dover tornare alle urne per tutta una serie di motivi. Dire che il governo deve durare fino al 2023, al di là di chi possa essere il premier, non è una grande rassicurazione. Ecco perché le parole di Draghi hanno prodotto l’effetto opposto: l’opinione diffusa è che togliendo il premier da Palazzo Chigi la data delle elezioni sarebbe più vicina.

Ecco da cosa deriva il gelo dei partiti. Probabilmente, infatti, il premier si sarebbe aspettato un reazione diversa da parte delle forze politiche che dovrebbero eleggerlo al Colle. Per la prima volta in carriera l’ex dirigente generale del Tesoro non dovrà essere scelto per le sue indiscutibili qualità: dovrà essere votato. Riuscire a spuntarla alla lotteria del Quirinale è una cosa molto diversa da essere nominato al vertice di Banca d’Italia, della Bce o persino a capo di un governo di unità nazionale. L’impressione è che l’apertura compiuta ieri dal premier sia stata un po’ troppo netta.

Repubblica e Stampa, i quotidiani degli Elkan solitamente molto affettuosi con Draghi, hanno dato ampio spazio al sentimento d’insofferenza e di fastidio delle forze politiche nei confronti della schiettezza del premier. Il quotidiano diretto da Massimo Giannini cita un ministro senza nome, secondo il quale Draghi la fa troppo facile: pensare che si possa formare un governo con una maggioranza uguale a quella che sostiene quello attuale come se niente fosse è – nella migliore delle ipotesi – una mancata conoscenza della politica e delle sue fatiche. Il giornale guidato da Maurizio Molinari, invece, fa dire a un parlamentare del centrodestra questa frase: “Credo che Draghi sottovaluti i pericoli di un voto d’aula, per giunta segreto: senatores boni viri, senatus mala bestia“. Come dire: occhio ai franchi tiratori. La strada per il Colle può essere non solo ripida, ma pure piena di buche.

D’altra parte già ieri dai partiti erano arrivate note informali che trasudavano un certo scetticismo sull’ipotesi di trasloco del premier al Colle. Una candidatura subito stoppata da Silvio Berlusconi, che continua a sognare per se stesso il Quirinale, mentre a dare sostanza all’insofferenza del resto del centrodestra ci ha pensato Matteo Salvini: “Un governo che ha ben lavorato deve andare avanti: se togli una casella come Draghi, del diman non vi sarebbe certezza. L’autorevolezza di Draghi come presidente del Consiglio ce l’ha solo Draghi. Altri avrebbero molta più difficoltà”, dice il leader della Lega. Che anche questa volta dice cose simili a quelle di Matteo Renzi. Ieri Italia viva è stato l’unico partito a non far uscire un comunicato dopo le uscite del premier. Dopo il successo all’elezione di Sergio Mattarella, però, Renzi è convinto di essere un formidabile kingmaker di capi dello Stato. Logico dunque che non veda bene l’ipotesi Draghi, primo caso di presidente kingmaker di se stesso.

Primo sponsor di Draghi, ultimamente Renzi non risparmpi stoccate all’esecutivo. Oggi ha messo in agenda un intervento sulla manovra al Senato per avanzare tutta una sorta di critiche al governo: dal mancato coinvolgimento del Parlamento, al ritardo sulle terze dosi. “Amicus Plato sed magis amica veritas, questo metodo di lavoro svilisce il Parlamento”, dice in un’intervista a Repubblica. In cui ricorda che “sette anni fa la maggioranza parlamentare fu diversa dalla maggioranza presidenziale: il Quirinale fa sempre storia a sè”. Una sorta di replica a Draghi, che ieri aveva detto di temere “una maggioranza che si spacchi sulla elezione del presidente della Repubblica”. Tradotto: per il premier ci vuole un candidato in grado di prendere i voti dei partiti che sostengno il suo governo, oppure il medesimo governo è a rischio. Qual è l’unico nome che riesce a mettere insieme Lega e Pd, Forza Italia e 5 stelle? Il suo ovviamente. Pure i 5 stelle e il Pd, però, già ieri divagavano sull’argomento Quirinale, preferendo concentrarsi “sull’auspicio che la legislatura vada avanti in continuità con l’azione di governo fino al suo termine naturale”. E’ l’unico modo sicuro per arrivare al 2023 e non togliere Draghi da Palazzo Chigi.