Elena Ferrante – I margini e il dettato (edizioni e/o) - 5/10
Sua altezza Ferrante. Le puoi dire di tutto, citarla per alto tradimento anagrafico, sfruculiarne le generalità tra Anita Raja e Marcella Marmo. Eppure chiunque essa sia ha una prosa ineccepibile, magnetica e peculiare anche quando non affronta la forma del romanzo. In I margini e il dettato, semplicemente, la Ferrante conversa amabilmente sull’arte, la smania, l’impulso della sua scrittura. E lo fa “romanzando” alcune lezioni magistrali destinate ad un convegno accademico dell’Alma Mater Studiorum di Bologna. Ma soprattutto raccontando in prima persona i propri patimenti, le proprie indecisioni, i propri fallimenti, prima di qualunque possibile (e mai citato successo). Ne La pena e la penna è come se Ferrante mostrasse la sua vulnerabilità di scrittrice in erba, quelle “pagine lente” scritte in attesa “dello scatto inarrestabile”, quel “congenito scompenso”, quell’ “inceppo residuale” che rimane tra lo “scrivere” e il “pensiero-visione”; così come lo squilibrio tra quel punto di vista maschile utilizzato ovunque e il femminile che cerca di imporsi senza vergogna (e qui si aprirebbe il capitolo sull’autobiografia mai scritta). In Acquamarina invece ecco espresso in forma piana quel desiderio di un realismo personalizzato, sfuggente, a suo modo rude che Ferrante ha cercato nel tempo basandosi su Jacques il fatalista e il suo padrone di Diderot. Ci sono anche cinque “piccole scoperte”, che sono poi i segreti dello scrivere, che valgono più di qualunque scuola di scrittura. Libercolo sinceramente indispensabile.