Paolo Cognetti – La felicità del lupo (Einaudi) Paolo, ci si permetta una confidenza amichevole, a noi che è stato concesso di vedere e prevedere il tutto, ha raggiunto la vetta della sua letteratura. La felicità del lupo è un romanzo semplicemente sublime. Denso e serissimo nella sua estrema suggestiva rarefazione dello spazio (Fontana Fredda, paese nascosto di montagna in inverno tra animali selvatici, una pista da sci e un rifugio vero – Il Pranzo di Babette); delicatamente e parzialmente biografico nell’isolamento psicofisico del protagonista ora cuoco Fausto, scrittore bloccato, impacciato, separato, mescolato a (pochissima) gente di montagna tra cui l’incontro con la cameriera giramondo Sara; infine magicamente e silenziosamente evocativo verso una dimensione naturale (i mesi che passano, i profumi, le sensazioni) che si impone per austera meraviglia, l’ultimo Cognetti vive di una scrittura essiccata, all’osso, eppure tremendamente vibrante di vita e di rimpianto, di fragilità e di lampi ebbri di una felicità sottile e sfuggente. Il tratto poetico cognettiano è preciso, perentorio, inesausto. La trama ingrana, si srotola, attecchisce robusta, poi sembra come trascendere ben oltre il tempo del reale (“dove la neve svanisce le storie si interrompevano”). E su tutti un lupo che osserva.