Pietro Castellitto – Gli iperborei (Bompiani) - 8/10
C’è un dato di fatto, oggettivo, più vero del vero. Pietro Castellitto non lo puoi identificare con nessun altro prima di lui. Sia che diriga un film da lui scritto. Sia che scriva un romanzo. Un bene? Un male? Un’esagerazione? Chissenefrega? Saluti e baci. A noi questa turbolenza linguistica inattesa, questa imprevedibilità semantica e politica, ci affascina e ci scuote. Gli iperborei non è la poesiola recitata dal bravo e retto bambino che porta il messaggio buono e delinea la morale scontata, ma una costola drogata, iperbolica, declinata sull’angoscia, di quei I predatori che al grido “non è un film antifascista ma antiborghese” fece scuotere critici e pubblico del Festival di Venezia 2020. Al netto dell’accattivante ironia presente nel film, nel suo primo romanzo Castellitto delinea invece una frantumazione interiore, senza appigli emotivi ed emulativi verso il lettore, di un gruppo di ricchi figli dell’alta borghesia romana – Poldo(il protagonista), Tapia (che è pure un onorevole), Guenda (l’amata da Poldo), Stella. C’è sempre sottocoperta, qui in barca, L’anticristo di Nietzsche; uno sballo smodato, reiterato e oramai quotidiano, che comunque non è Bret Easton Ellis e ne ci vuole somigliare; infine l’inspiegabile desiderio di una quiete bambina che preme sottotraccia, almeno in Poldo, grido infantile, richiesta di aiuto inespressa e muta che si mescola nell’amalgama fitta di una narrazione dai rapidissimi scambi di battute, fulminanti divagazioni, pennellate sciolte di descrittività. Psicofarmaci, superalcolici, tumori e cancro, Castellitto gioca a fare il navigato. Fa correre i suoi personaggi in una Roma sballata poi finisce tragico nel mare pontino. Infine quando si tratta di chiudere, niente redenzione, niente abiure classiste. Insomma, più maturo di quello che all’apparenza sembra. Tutto è pronto per un altro romanzo.