Il martellare di kick e bassi è così invadente da risuonare nella gabbia toracica. L’intensità della musica scema per qualche secondo; poi risale. Il brano si fa via via più saturo, come la pista da ballo. Sembra che da un momento all’altro un aereo debba lasciare la grande sala per raggiungere il cielo nero sopra Milano. Più su, sempre più su. Alzo gli occhi: alla balaustra trasparente del primo piano c’è appoggiato un tizio. Ha i pantaloni abbassati e muove il bacino avanti e indietro. Una ragazza è inginocchiata davanti a lui e glielo sta succhiando. La musica si ferma per un secondo, come un dive coaster prima della caduta. C’è un attimo di vuoto. Poi esplode in una serie di tunz-tunz. Ed esplodono anche i corpi nudi che saltano sotto le casse.
È venerdì 17 dicembre e nel locale c’è odore di fumo e di sudore. Faccio per lasciare la pista, voltandomi. Accanto a me trovo quel che resta di una ragazza, appesa a testa in giù, con le braccia e le ginocchia legate in posizione fetale. È fissata a una struttura rettangolare. Un uomo calvo, possente, vestito di nero, le sta annodando intorno al corpo una serie di corde e sembra soddisfatto. La osserva e le dà una serie di schiaffi sui glutei scoperti. Lei geme. Tutt’intorno, a cerchio, ci saranno una trentina di persone. Io, da fuori, devo aver la faccia di uno che ha appena leccato un grosso limone. E infatti mi si avvicina un tizio in perizoma e con un’imbracatura in cuoio che gli corre intorno alle braccia e al petto: “È lo shibari”, mi dice, “mai provato?”. “Ehm, no”.
Come sono finito a una festa privata, dove all’ingresso ti regalano preservativi e dove, dentro, è ammesso fare qualsiasi cosa?
Sul finire dell’estate c’è stato un bel tam-tam, sui social, relativo a una serata sessualmente esplicita, il cui dress code richiesto era, appunto, “sesso”. Detta così può sembrare il raduno di tanti piccoli Charles Bukowski in astinenza (cioè, sempre). La verità è che dietro l’organizzazione c’era – e c’è – uno dei negozi di sex toys più belli e all’avanguardia di Milano, che si chiama WOVO. Scrivo “all’avanguardia” perché non si tratta solo di un negozio, ma di una comunità di persone che promuove l’educazione alla sessualità – che in Italia subisce un po’ la stessa riprovazione morale di uno che si fa saltare in aria in un centro per anziani – e la sex positivity (per chi odia come me gli anglicismi, la “positività del sesso”).
Avere il biglietto non è stato semplice. Gli organizzatori, per creare un ambiente che fosse il più sicuro possibile per tutti, hanno fatto una selezione. All’inizio è stato necessario compilare un modulo con una serie di domande: “Hai una persona nuda accanto a te al party, cosa fai?”; “Cosa potrebbe urtare la tua sensibilità a un party sessualmente esplicito?”; “Cosa ti sentiresti liber* di fare?”; “Che differenza c’è tra mostrare il proprio corpo e dare il consenso a essere toccat*? Se sì, che differenza?”; “Perché dovremmo accettare la tua candidatura?”. Poi bisognava rendersi in qualche modo identificabili, inviando il proprio profilo Instagram. Le richieste di partecipazione sono state migliaia. I candidati “promossi”, dopo qualche settimana, hanno avuto accesso alla prevendita, nominale, dei biglietti. Che è stata, letteralmente, un delirio. Il sito si è inceppato e i biglietti sono finiti in poche ore. Quelli che sono stati “bocciati” per via delle risposte, beh, niente, sono stati bocciati. Credo, però, “con appello”.
Così, dopo qualche giorno, è arrivato via mail il biglietto (25 euro). Sopra era indicata la data della festa, il luogo (in teoria segreto) e l’abbigliamento opportuno con cui presentarsi (pena, l’esclusione). E la scritta recitava – rullo di tamburi – “super hot”. Bella paranoia, almeno, per me. Come mi vesto? Gli esempi dati dagli organizzatori, per quanto riguarda il sesso maschile, non mi si addicono granché: tutine a rete nero o flou; magliette a rete, perizomi, mutande in pelle (o finta pelle, spero) che è come non averle e fai prima, pantaloni in pelle (o finta), imbracature (che si dice harness, a quanto pare) e via dicendo. Tutte cose bellissime, per carità, ma grande sconforto per il sottoscritto. Alla fine, però, spunta anche – non ho capito bene perché, forse per praticità – il pantalone della tuta. Purché, è la precisazione, sopra si stia a torso nudo. “È fatta”, mi dico, “speriamo solo non ci sia freddo”.
Esco di casa a mezzanotte, non succedeva dalla beffa di Buccari. Ho messo un po’ di matita sotto gli occhi per avere più chance alla selezione all’ingresso. Fuori fa un freddo cane, due gradi e l’umidità della Pianura Padana che spegne i lampioni. Raggiungo il locale, che si trova nella periferia nord-est di Milano. Si entra solo col certificato verde rinforzato, quindi col vaccino o dopo la guarigione. E infatti tante persone, pur avendo già il biglietto in tasca, rinunciano. Sarà la mia matita sotto gli occhi, sarà che sembro Émile Bouin dopo aver trovato il gatto morto in cantina, sta di fatto che mi lasciano passare senza problemi. Varco la porta e mi accoglie una ragazza dalle gambe nude che mi arrivano appena sotto la spalla. Mi dà un pacchetto, mi augura “buon divertimento” e mi indica lo spogliatoio. Nel pacchetto ci sono, tra le altre cose, due preservativi.
Prima di continuare, però, devo aprire un capitolo che sin qui non ho toccato: il Covid. A settembre, quando ho iniziato a interessarmi della festa, eravamo tutti belli tranquilli: pochi contagi, pochi ricoveri, vaccinazioni come se non ci fosse un domani. Poi, come sappiamo, le cose sono cambiate. Mi domandavo: “Come possono fare la festa in queste condizioni?”. La risposta, che piaccia o no, è semplice: seguendo le regole. Il che significa: capienza al 50% nel locale (non ci saranno state più di 300-350 persone, e secondo me ne poteva contenere almeno 800) e super green pass. Fine. Un tampone prima di entrare, misura a cui starebbe pensando il governo in questi giorni? Mi risulta che ci abbiano pensato, ma a quanto pare non potevano obbligare nessuno. Come mi ha detto una ragazza di Reggio Emilia, di nome Beatrice, durante la serata: “Io l’ho fatto prima di venire e spero di non essere stata l’unica. È vero, siamo tutti vaccinati, ma il punto è che se partecipi a un evento del genere il rischio di contagiarti te lo accolli. Poi l’assurdità è che io, che lavoro nella ristorazione, debba fare il carabiniere tra i clienti che si alzano dal tavolo senza mascherina”. Inutile aggiungere che in una festa in cui sono tutti nudi o seminudi, le mascherine sono rimaste nella tasca della giacca.
Esco dallo spogliatoio. Respirone. Mi si avvicina un ragazzo con ali bianche che gli spuntano dalla schiena. Insieme ad altri nove “angeli”, controlla che tutto vada per il meglio. Mi chiede il cellulare e mi appiccica degli adesivi sulla fotocamera. No phone, pure fun. Lo ringrazio. Di fronte a me c’è la pista e persone già scatenate. Tutti molto a loro agio. Sulla destra e sulla sinistra ci sono due coppie di pali, con ballerini e ballerine. In fondo alla sala, dalla parte opposta, c’è il palco. E anche lassù ci sono pali, gabbie e persone nude che si contorcono. Io sto in piedi, dritto, con in mano la giacca, la felpa e la maglietta. Mi sento un cretino. Devo depositarle al guardaroba, ma al guardaroba c’è una fila che arriva a Caronno Pertusella. Mi dirigo al bar e prendo un gin tonic, così stare in fila sarà meno doloroso. Peccato, però, che la mia speranza sulla temperatura – che fosse, non dico calda, ma almeno piacevole – debba fare i conti con la realtà: il guardaroba è accanto alla porta d’ingresso. Così resto in coda per quasi un’ora, a torso nudo, col gin tonic ghiacciato (bella idea, eh!) e con la certezza che, se non sarà il Covid, prenderò una polmonite per le ventate gelide che entrano dalla soglia.
Finalmente ho le mani libere, passo al bar per una ricarica, poi vado sotto il palco. Provo a mischiarmi tra le persone. L’atmosfera è, come dire, gioiosa. Sento il calore di qualcuno molto vicino al mio corpo. Giro la testa e c’è un ragazzo che mi sorride. Faccio finta di niente, ma il calore si trasforma in un contatto. Allunga la testa verso il mio orecchio: “Ti stai divertendo?”. Forse do l’idea che no, non mi sto divertendo. Cerchiamo di scambiare due parole, nonostante la musica copra anche i nostri pensieri. Dopo i primi “come ti chiami, come mai qui?”, gli chiedo se non ha paura dei contagi. Sembra confuso, se ne va. Continuo a ballare per i fatti miei. Conosco una ragazza di 21 anni, che viene dalla Valtellina, di nome Silvia. Ero convinto che le persone di 21 anni non esistessero, prima di quel momento. In effetti, prima di andare alla festa, pensavo che l’età media dei partecipanti fosse sopra i 40, e invece no. Io ne ho 31 e non mi sono sentito giovane. C’erano moltissimi 20-25enni, tante coppie.
A un certo punto, passate le 3, mi accorgo che la pista da ballo si è svuotata. “Dove sono finiti tutti quanti?”. Lungo uno dei due lati corti della sala ci sono delle scale, che portano al piano di sopra che si affaccia sulla sala principale. Prendo le scale, stando attento a non inciampare. Alla balaustra, sulla sinistra, con la vista su palco e pista, ci sono persone in piedi che fanno sesso. Si capisce che la visuale, dall’alto, ispira. Sulla destra, invece, ci sono dei divani. E sui divani, altri corpi uniti, questa volta uno sull’altro o a novanta; e, accanto, poche persone che dormono o sono collassate. O entrambe le cose.
Percorro il primo piano in tutta la sua lunghezza, costeggiando la balaustra e stando attento, anche qui, a non inciampare. In fondo, sulla destra, trovo la cosiddetta dark room. Non so bene cosa sia, ma scommetto che una parte delle persone sparite dalla pista da ballo sia qui. Si entra scostando una specie di tessuto nero che penzola dall’alto e che fa effetto vedo-non vedo. Scopro presto che la dark room è piena di questi teli che ne fanno una specie di labirinto. Dal lato della parete ci sono i soliti divani. Ed ecco la conferma alla mia supposizione: le persone che non erano giù, sono quassù. Sembra che si divertano alla grande. Senza soffermarmi troppo, scorgo un tizio e una tizia, inginocchiati uno accanto all’altro, che leccano il pene a un ragazzo che sta loro di fronte, in piedi. Poco più in là, c’è un’altra festa con due coppie. Le ragazze si stanno baciando, mentre alle loro spalle ci sono due tipi che ansimano e che fanno avanti e indietro col bacino. Io mi sento come l’anziano protagonista dei libri di Kent Haruf, Raymond McPheron, che entra per la prima volta nella camera di una donna quando ha già un piede nella fossa. Inizio a percorrere di nuovo il primo piano, in senso inverso, all’interno della dark room. Scosto uno dei teli e mi ritrovo davanti un uomo col pene in mano. Mi sorride. Io gli faccio un cenno di saluto e passo oltre. Mi segue per qualche metro, poi si infila tra i divani.
Scendo le scale e torno al bar. L’atmosfera in stile discoteca che c’era poco fa, è cambiata anche al piano terra. Un po’ dappertutto ci sono scene di sesso. Di fronte a me ci sono quattro ragazze avvinghiate tra loro. Mi ricordano il Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, perché un po’ si respingono e un po’ si scambiano i fluidi. E la cosa buffa è che non sono esattamente ferme. Fanno qualche passo, poi si fermano, poi ancora qualche passo. Tempo di dare una rinfrescata al gargarozzo e mi dirigo al guardaroba. Mentre aspetto i miei quattro stracci, mi si affianca una ragazza. Anche lei sta andando via. Ci scambiamo due parole sulla serata: “Sono qui da sola, ho ballato seminuda e non mi sono mai sentita così sicura e a mio agio. In discoteca questo non succede”. La saluto ed esco. Ci sono gruppetti di tre-quattro persone che schiamazzano: stanno commentando, anche loro, la festa. Tiro fuori il telefono: tra quattro ore suona la sveglia. Alzo gli occhi al cielo ma non c’è niente da vedere. La nebbia è ancora lì.
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