Il salario minimo mensile fa segnare il record del più basso d'Europa, con le file per il pane che aumentano. Sembrano lontani anni luce gli anni 2000, quando la crescita era rapida e la veste democratica delle istituzioni sembrava impeccabile, almeno agli occhi dell'occidente. Si stanno creando le medesime condizioni, ma ben più gravi, che portarono alle proteste di Gezi. Per la prima volta i sondaggi indicano che il partito del premier Akp potrebbe uscirebbe sconfitto dalle elezioni
File per il pane, infermieri sottopagati, sacche di povertà e malcontento che si ingrossano progressivamente. La Turchia di questo ultimo scorcio di anno si presenta così, dopo aver inanellato una serie di record negativi per la moneta nazionale zavorrata dalle scelte politiche, di pancia e non di testa, del presidente Recep Tayyip Erdoğan. I riverberi di quella che potrebbe essere definita una vera e propria anticamera del crac, ricadono principalmente sulle spalle di lavoratori e famiglie, alle prese con un’inflazione massiccia che significa acquisti più cari e difficoltà elevate al cubo per le fasce più deboli.
Da giorni ormai si notano le file per il pane, affollate di quei cittadini indigenti che si presentano ai banchi alimentari o presso quei negozi che aderiscono ai programmi sociali per i meno abbienti. Sembrano lontani anni luce i periodi d’oro del paese quando, dal 2000 in poi, la crescita economica si distendeva al ritmo del 10% e il governo si presentava moderato e islamico. Il tutto conferiva al paese una stabilità non solo inedita ma finanche positiva per una serie di riflessi condizionati come l’avvio delle procedure di ingresso nell’ Unione europea. Era la prima volta che un paese musulmano cresceva così rapidamente senza avere la disponibilità del petrolio e per di più in una cornice democratica, frutto di regolari elezioni. Poi qualcosa si è rotto, non solo nei conti pubblici o nella percezione della gente: dalla violenta repressione delle proteste di Gezi Park del 2013 in poi la guida erdoganiana ha cambiato pelle, con il risultato che le difficoltà di oggi si sposano con le crescenti tensioni geopolitiche e le politiche spesso disarticolate attuate dal governo.
La crisi della lira si sta abbattendo sui consumi e sulle famiglie, mentre l’inflazione annuale ha raggiunto il 21% a novembre, dato che però diventa più del doppio (58,65%) secondo l’Inflation Research Group (ENAgroup). Significa che esiste anche un problema di comunicazione istituzionale nel paese, su cui si concentrano gli strali di studenti e lavoratori che non si fidano più dell’inner circle erdoganiano e dei relativi messaggi. Se la lira turca continua a scendere nei confronti delle valute estere, il salario minimo mensile fa segnare il record del più basso d’Europa e corrisponde a poco meno di 200 dollari. Qualche giorno fa sono finite in un nulla di fatto le trattative per rinnovare il contratto a 150mila metalmeccanici, a cui era stato offerto un misero aumento del 12%. Non va meglio per medici e infermieri, tra l’altro nell’occhio del ciclone per l’emergenza pandemica: una settimana fa il paese è stato scosso da uno sciopero generale, causato dal rifiuto di Erdoğan di migliorare le condizioni economiche e sociali di tutti gli operatori sanitari. Non solo i lavoratori vi hanno aderito in massa, ma anche gli studenti di medicina non anno voluto far mancare il proprio sostegno, boicottando le lezioni.
In sostanza si stanno creando le medesime condizioni, ma ben più gravi, che portarono alle proteste di Gezi Park: il disagio sociale serpeggia tra lavoratori e giovani e attende solo la scintilla per trasformarsi in esplosione. Non è semplice convincere i cittadini che non ci sono fondi per stipendi e servizi, mentre il governo invece li stanzia a cuor leggero per infrastrutture faraoniche di dubbia utilità come il secondo ponte sul Bosforo, o per comodità presidenziali come l’Air Force One acquistato di seconda mano dai paesi del Golfo o come la “Casa Bianca” di Erdogan da mille camere. Senza contare le spese militari sostenute in Siria e in Libia che incidono, al pari di quelle diplomatiche, su un bilancio pubblico che appare sempre più instabile. E a poco serve, come contraltare, il fatto che Erdogan punti all’Africa come ad un potenziale nuovo cliente a cui vendere i suoi droni. Non saranno quelle pur interessanti commesse a trainare il settore del welfare che perde costantemente pezzi, in un momento in cui si moltiplicano le voci di un possibile gesto forte da parte di Erdogan, che vede i sondaggi in calo e il malcontento popolare alle stelle. Per la prima volta i sondaggi indicano che il partito del premier Akp uscirebbe sconfitto alle elezioni dai kemalisti del Chp in una colazione con liberali e curdi.
Certo, gli aiuti esterni non mancano. Il Qatar continua ad incarnare il ruolo di finanziatore, mentre dall’Ue arriva un altro assegno sul Bosforo da 560 milioni di euro, per sostenere iniziative di istruzione inclusiva di qualità, compreso l’accesso all’istruzione superiore tramite borse di studio, per i rifugiati in Turchia e per la protezione delle frontiere, sommandosi ai 3 miliardi di euro annunciati dal presidente della Commissione Ursula Von der Leyen nel giugno 2021, per mantenere il sostegno dell’UE ai rifugiati in Turchia fino al 2023. Ma non potranno essere queste fiches esterne a raddrizzare un quadro che appare complesso e, probabilmente, già alquanto compromesso.