“Da studentessa in Danimarca, tra borsa di studio e part-time, prendevo circa 2mila euro al mese, e dopo un anno dal primo impiego potevo permettermi un affitto da 1200 euro. Se oggi tornassi in Italia probabilmente sarei considerata come una giovane trentenne e non una professionista con esperienza”. Valentina Camilletti, marchigiana, è un esempio della generazione Erasmus: dopo un’esperienza alla Copenhagen Business School nel 2013 decide di tornare in Danimarca per un master in diversity and change management e, ancora studente, trova il primo impiego nella compagnia commerciale Maersk. Oggi lavora nella sede centrale della Lego, a Billund, unica non danese del suo team: “Ho lasciato un contratto a tempo indeterminato per un progetto di vita con il mio compagno, in Italia non lo avrei mai fatto!”.
Quando spiegava che voleva continuare gli studi in Europa le dicevano “dove pensi di andare con questa mente così europea, sei ancora una ragazzina”. Ma con il suo primo lavoro ha percepito una cifra tripla rispetto a quella che avrebbe preso in Italia. “I miei studi alla Cbs riguardavano una disciplina vicina al campo delle risorse umane che gestisce, su vari livelli, l’inclusività all’interno dell’azienda; passando dalla sostenibilità della gestione di rischi ambientali, alla parità remunerativa di genere. In Italia non c’era nulla di simile”. Durante il primo semestre del secondo anno entra in un’importante azienda commerciale: “Benché avessi un contratto da studente qui non esiste che passi il tempo a fare le fotocopie: devi imparare in fretta“, ricorda, “ma in compenso ti danno quasi subito una certa autonomia e flessibilità. Non bisogna timbrare un cartellino ma gli orari non sono mai davvero fissi, almeno nel privato, come una certa retorica potrebbe far pensare, però quando mi servivano dei giorni per me nessuno me li ha mai negati”. E la flessibilità lavorativa dà sicurezza proprio se si deve fare una scelta personale: “Io mi sono trasferita in una nuova città , lasciando Copenhagen, per seguire una scelta di vita con il mio compagno, lasciando un indeterminato per un determinato, perché hai un po’ di sicurezza di riaverlo”.
La mentalità nordica di Stato sociale è ancora radicata, benché ci sia un cambiamento in atto con le nuove generazioni. E non mancano le disparità. “C’è differenza salariale di genere anche qui, benché in maniera più ridotta che in Italia – spiega Valentina al Fatto.it – ma le aziende come Maersk o Lego fanno costantemente delle analisi interne per risolvere queste problematiche. Però, in generale, le donne percepiscono ancora uno stipendio un po’ più basso”. Una delle sue mansioni è proprio quella di limare tali differenze all’interno dell’azienda: “Nel mio caso capitava che i danesi venissero promossi più facilmente rispetto gli stranieri. Questo è successo anche a me. Dopo un paio di anni in Maersk l’ho fatto notare e hanno aggiustato il salario, ma è stato possibile grazie ai colleghi danesi che mi hanno fatto notare la cosa”. La Lego Group, dove lavora ora, benché sia un’azienda internazionale, ha iniziato da poco a cambiare mentalità per quanto riguarda la comunicazione interna: “Sono la prima del mio team non danese, e stiamo riuscendo a far passare il concetto per cui quando si è in una situazione ufficiale si deve parlare in inglese – poi spiega –. Io parlo danese ma non è un problema linguistico: l’apertura di un’azienda e il non arroccarsi su dinamiche circoscritte sono messaggi importanti per chi è all’esterno. Una cosa che dovremmo migliorare anche nelle aziende italiane”.
Che in Danimarca il costo della vita sia notoriamente alto, come negli altri paesi scandinavi, è risaputo. “Spendi almeno un terzo dello stipendio in affitto, non vai a cena fuori diverse volte a settimana, se vai in un ristorante medio alto ci vai massimo una volta al mese – racconta Valentina –. Credo sia per mantenere gli stipendi così alti di chi fa lavori più umili, perché anche loro guadagnano bene. Una sorta di parificazione dei redditi: se tu entri in una casa di un danese vedrai lo stesso servizio di piatti del vicino anche se uno è un operaio e l’altro è un avvocato”. Lo chiamano janteloven, un’usanza secondo cui il singolo che cerca di differenziarsi dal gruppo viene visto negativamente. Insomma, non bisogna tirarsela troppo. “Lo vedi anche nell’estetica: vestono spesso di colori scuri, stesse marche di vestiti, di elettronica e così via. Ma le giovani generazioni cercano di discostarsene, tendono ad essere più individualiste”, afferma Valentina.
La quarta ondata di coronavirus non ha risparmiato neanche la virtuosa Danimarca – dove i test per il covid sono gratuiti – che con il suo 77% di vaccinati con ciclo completo ha raggiunto i 45.983 contagi tra il 5 e l’11 dicembre, benché i morti sono stati meno di un terzo rispetto il picco di gennaio. “Io ho avuto il covid lo scorso anno, non sono stata in ospedale ma ho avuto degli strascichi da long covid. Ecco – confessa – forse una cosa che mi manca dell’Italia, paradossalmente, è la nostra sanità. Da noi un medico di base può dedicarti più tempo e puoi chiedergli più cose, mentre qui, essendo i medici pagati anche in base alle prestazioni, se chiedi un appuntamento per una cosa e vuoi chiedere un parere per un’altra, devi riprendere appuntamento”. Alcuni stereotipi, però, sono veri: “Del nostro Paese mi manca l’apertura e il calore delle persone, qui ci mettono un po’ da questo punto di vista. Dopo anni, oltre alla mancanza di famiglia e amici, ti rendi conto di aver perso molti momenti importanti della vita delle persone a cui tieni di più”.
Valentina rimane fiduciosa sul futuro, anche del nostro Paese: “Che la pandemia abbia velocizzato un processo di cambiamento è innegabile. Siamo molto più connessi, le generazioni oggi sono diverse da quelle dei nostri genitori – afferma -. Però l’Italia per ora non è un Paese per giovani o donne. Qui non c’è una gerarchia per cui se uno è più anziano ha il diritto di passarti davanti o viene considerato di più. Finché vorrò focalizzarmi sul lavoro non tornerò in Italia a meno che la cose non cambino”.