Tra gli Anni '60 e gli Anni '80 si utilizzavano in larga parte gasolio e prodotti di combustione contenenti zolfo. Oggi l'atmosfera raggiunge livelli critici per altri elementi, come l’ossido d’azoto. Una cosa rimane certa: "Resta un indicatore della qualità dell'aria"
La nebbia è ancora protagonista dell’inverno? Nelle ultime settimane la foschia e la scarsa visibilità sulle strade nelle ore notturne hanno creato diversi problemi alla viabilità nel Nord Italia. Sono state però per molti anche un richiamo nostalgico agli ultimi decenni del secolo scorso. In realtà però “non possiamo banalizzare – spiega il meteorologo e divulgatore scientifico, Luca Mercalli – La nebbia c’è sempre stata e sempre ci sarà. Se si manifesta, non c’è una novità o situazione particolare”. Si tratta infatti di un fenomeno stagionale, legato ai periodi di stabilità atmosferica. A essere cambiati negli ultimi anni sono “la frequenza e l’intensità con cui si manifesta” e, solo in parte, il suo rapporto con l’inquinamento dell’aria. Infatti tra le sue cause ci sono sempre meno le sostanze emesse dall’uomo. Ma la sua composizione e la sua durata spesso sono una spia importante della qualità dell’aria in determinati periodi dell’anno.
Una delle cause principali della nebbia è il freddo. Quando le temperature si abbassano, l’aria a contatto con il suolo gelato – di mattina o al tramonto – si condensa. Crea così una nube di vapore acqueo che, in condizioni normali, salirebbe verso l’alto. Invece l’alta pressione – frequente nelle valli e in pianura – crea una particolare stabilità meteorologica, senza movimenti verticali: l’aria umida e fredda, più pesante rispetto a quella calda e secca – rimane imprigionata al livello del terreno e causa la formazione di una sorta di aerosol. La nebbia. Nel ventennio dal 1994 al 2014 – stima uno studio dell’Isac Cnr (Isituto di scienza sull’atmosfera e il clima e Consiglio nazionale delle ricerche) – nella Pianura Padana, l’area più interessata in Italia, gli episodi di foschia sono diminuiti di circa il 50%. Negli ultimi anni la tendenza è stata la stessa, complice anche l’aumento delle temperature. “Dipende dall’andamento della singola stagione. Basta però un periodo di alta pressione per molti giorni e la nebbia ricompare – spiega ancora Mercalli – L’unico vero fattore che potrebbe essere indiziato per la minore frequenza della nebbia negli Anni Duemila è il cambiamento del tipo di inquinanti nell’aria”. Tra gli Anni ’60 e gli Anni ’80 – in cui la foschia era tutt’altro che occasionale – si utilizzavano in larga parte gasolio e prodotti di combustione contenenti zolfo. Questi “favoriscono aggregazione goccioline acqua, anche quando in condizioni normali non si sarebbe formata. Oggi – secondo il meteorologo – ci sono altri inquinanti, come l’ossido d’azoto, meno affini alla nebbia”.
La foschia degli ultimi anni però non è del tutto estranea alle particelle emesse dall’uomo nell’aria. “Il fenomeno è naturale – afferma Guido Lanzani, Dirigente Unità Organizzativa Qualità dell’Aria di Arpa Lombardia (Agenzia regionale per la protezione ambientale) – Ma capita in condizioni di stabilità atmosferica, che sono favorevoli, di per sé, all’accumulo di inquinanti nell’atmosfera”. Per questo motivo, è un indicatore importante della salubrità dell’aria: “La nebbia è il sintomo di una situazione di ristagno” spesso comune nella Valle del Po’, anche quando non ci sono sostanze specifiche che la determinano. Perciò non è raro che con la foschia si registrino anche livelli di inquinamento più alti. “A seconda della sua struttura, può favorire la diluizione delle sostanze dannose nel vapore acqueo e non permettere che si accumulano – spiega ancora Lanzani – oppure fare da tappo e le schiaccia sotto, verso terra,”. Proprio per questo, nei giorni nebbiosi, “l’inquinamento fatica ad andarsene”. Gli episodi però ultimamente si sono drasticamente ridotti e, in generale, “le condizioni di visibilità sono aumentate, in relazione alla diminuzione delle polveri” nell’atmosfera e al miglioramento della qualità dell’aria. La sua conformazione fisica – una conca tra le Alpi e gli Appennini – e la massiccia presenza di coltivazioni e allevamenti intensivi rende la Pianura Padana un “hotspot dell’inquinamento”. Però le concentrazioni degli inquinanti legati al traffico e all’attività industriali – polveri sottoli (PM10 e PM 2.5) e diossido d’azoto (NO2), entrambi tossici per l’organismo – sono da decenni in calo, sia in città che nelle aree rurali, secondo le stime di Arpa. Questo si riflette anche sulla nebbia. Nel 2021 uno studio di Isac-Cnr ha rivelato una diminuzione dell’acidità nelle particelle di vapore acqueo che la compongono. Il Ph dei campioni raccolti negli ultimi decenni si è abbassato dallo 0,5% all’1,5%. I livelli di carbonio dalla fine degli Anni Novanta al 2016 invece – spiega un’altra ricerca dell’Istituto – sono calati in media del 4% ogni anno. Il particolato sottile (PM10) tra il 2002 e il 2011 tra il 2 e il 5% all’anno, mentre quello sottilissimo (PM 2.5) tra l’1% e l’8%. Ciò dipende da diversi fattori, come gli avanzamenti tecnologici e l’impegno nel rispettare i limiti sulla salubrità dell’ambiente, imposti a livello europeo e internazionale. Dunque, anche se non si tratta di un fenomeno straordinario, per misurare l’efficacia di qualsiasi Piano di risanamento dell’aria e del clima in Lombardia ed Emilia Romagna, la nebbia rimane un indicatore fondamentale.