Mondo

Unione Sovietica, trent’anni fa la fine di una grande speranza

L’Unione Sovietica morì finalmente, dopo lunga agonia, il 25 dicembre del 1991, quando Mikhail Gorbaciov, rivolgendosi ai russi in diretta tv, pronunciò l’ultimo discorso presidenziale e annunciò che poneva fine alle sue funzioni di presidente dell’Urss. Fu un discorso solenne, breve e amaro. Quindici minuti in cui si mostrò “sobrio e controllato” (Andrea Bonanni, Corriere della Sera, 27 dicembre 1991), tuttavia non remissivo: “Ho difeso fermamente l’autonomia, l’indipendenza dei popoli, la sovranità delle Repubbliche. Ma difendevo anche il mantenimento di uno Stato dell’Unione, l’integrità del Paese. Gli avvenimenti hanno preso una piega diversa. Ha prevalso la linea di smembramento del Paese e di disgregazione dello Stato, cosa che io non posso accettare”.

Il discorso di addio del padre della perestrojka (“lascio il mio incarico con inquietudine”) era in realtà un atto d’accusa contro chi lo aveva spodestato e umiliato: “Sono convinto che decisioni di tale portata avrebbero dovuto essere prese in base all’espressione del popolo”, disse Gorbaciov, dimenticando che il popolo russo sotto lo spietato tallone sovietico non aveva mai avuto alcuna voce in capitolo

In Italia, quel Natale di trent’anni fa venne macchiato dal sangue di una bimba di tre anni, ammazzata da un killer che voleva uccidere il padre, a Naro, un paese di diecimila abitanti a trenta chilometri da Agrigento. Si chiamava Rosetta Cusimano. Il padre Gaetano, un manovale di 22 anni, la teneva per mano. Tornavano a casa dopo aver festeggiato e ricevuto i regali dai nonni. La famigliola aveva seguito distrattamente in tv la notizia della fine dell’Urss, raccontata dalle simboliche immagini che ritraevano la bandiera sovietica mentre veniva ammainata.

Il grande vessillo rosso fu calato velocemente dal pennone centrale del Cremlino dove aveva sventolato per 74 anni, senza alcuna cerimonia. Qualcuno dirà anni dopo che il funerale dell’Unione Sovietica cominciò alle 7 e 33 di quel pomeriggio, perché quella era l’ora segnata dal grande orologio della torre Spasskaja. Neanche un minuto dopo, la bandiera rossa con la falce e il martello era già a terra, pronta per essere piegata e trasferita in chissà quale magazzino di Mosca. Alle 7 e 45 il carillon dell’orologio batté il quarto: i turisti che incrociavano nella piazza Rossa poterono così ammirare la bandiera della Federazione Russa, il tricolore bianco, blu e rosso.

Ci fu chi applaudì. L’alzabandiera era stato ovviamente immortalato dai cameraman ai quali però era sfuggito il dettaglio degli applausi. Un operatore canadese chiese di ripeterli. La gente lo fece con allegria: speravano di cominciare una vita nuova. Libera. Democratica (in realtà, la bandiera russa fu innalzata sulle mura del Cremlino il 24 agosto del 1991, in tempi di incertezze e tensioni “anche se nessuno era ancora sicuro di che cosa fosse la Russia” – Catherine Merridale, Cremlino, Utet 2016 – il tricolore era il simbolo di una nazione che doveva ancora essere forgiata).

Del resto, lo stesso Gorbaciov nel suo commiato televisivo aveva detto: “Il destino ha voluto che, nel momento in cui io accedevo alle più alte cariche dello Stato, fosse già evidente che il Paese andava male. Qui abbiamo tutto in abbondanza: terra, petrolio, metalli preziosi, gas, carbone, altre ricchezze naturali, senza contare l’intelligenza e i talenti che Dio ci ha dispensato in gran numero: eppure viviamo in modo assai peggiore dei Paesi evoluti, siamo sempre più in ritardo rispetto a loro. Il motivo di ciò era già evidente, la società soffocava nella gogna del sistema amministrativo di comando. Condannata a servire l’ideologia e a portare il terribile fardello della militarizzazione a oltranza, era al limite della sopportazione. Tutti i tentativi di riforma parziale – e ne abbiamo avuti molti – sono falliti l’uno dopo l’altro”. L’Urss “perdeva i propri obiettivi. Non era più possibile vivere in questo modo. Era necessario un cambiamento totale e radicale”. Un’impresa della massima difficoltà, persino rischiosa. Un processo di rinnovamento che si era rivelato “molto più arduo di quanto si sarebbe potuto supporre”, confessò Gorbaciov.

Vale la pena rileggere quel discorso del 25 dicembre 1991: è il resoconto di una grande speranza fallita. Di una causa che il presidente dimissionario dell’Urss riteneva giusta e buona, tradita dalle circostanze: “Il vecchio sistema è crollato prima che il nuovo abbia potuto mettersi in movimento. E la crisi sociale si è ulteriormente aggravata. Conosco il malcontento che genera la difficile situazione attuale, le critiche pungenti espresse contro le autorità a tutti i livelli e a proposito della mia azione”. Nemo propheta in patria, sembrerebbe avesse voluto dire.

Il suo era l’ultimo di una infinita successione di discorsi: i cittadini sovietici in procinto di diventare cittadini russi erano travolti da un mare di parole, di promesse, di progetti, di mutamenti che li avrebbero coinvolti. La gente voleva soprattutto cose reali, opzioni concrete, non soltanto idee. I russi ascoltarono dunque il commiato di Gorbaciov con sollievo, quasi.

Del resto, il passaggio dei poteri (o meglio, lo smantellamento del potere sovietico) era ampiamente in corso. Il 1° dicembre del 1991 l’Ucraina, “la più bramata consorella della Russia” (Catherine Merridale, Cremlino), aveva votato a stragrande maggioranza l’indipendenza e fu, questo, l’ultimo colpo al piano di Gorbaciov di riconcepire l’Unione Sovietica. Peggio: Boris Eltsin, presidente della Federazione Russa (dal 10 luglio) fece di più. L’8 dicembre concluse un trattato, quasi segreto, in una residenza bielorussa della foresta di Bieloveski, in cui si configurava un mosaico di nazioni nuove, indipendenti, legate da interessi comuni (economia, difesa) che avrebbero dovuto collaborare assieme per risolvere alcune problematiche comuni, prima di proseguire per i rispettivi cammini.

Eltsin astutamente si ergeva a difensore della “gente comune”, per la quale si apprestava a conquistare il controllo del Cremlino, la cittadella del potere: “Il Cremlino era un simbolo di stabilità, durata e determinazione nella linea politica scelta”, avrebbe ricordato poi nel suo Diario del Presidente lo stesso Elstin, “se il mio governo doveva essere improntato sulle riforme, era questo che stavo dichiarando ai miei avversari trasferendomi al Cremlino”. Ambizioso, impulsivo e intollerante, Eltsin si contrapponeva a Gorbaciov non solo nel temperamento e nei toni, ma anche nelle tecniche della propaganda politica.

Il paradosso, annota la storica Merridale (docente a Cambridge, Londra e Bristol), era l’impossibile convivenza di due capi di Stato: Gorbaciov, presidente dell’Unione Sovietica. Eltsin, presidente della Federazione Russa: “Il Partito comunista magari era in disgrazia (e Eltsin si mosse contro di esso quello stesso agosto occupandone le sedi e chiudendone gli uffici principali) ma nel referendum di marzo la gente aveva chiesto a Gorbaciov di ridisegnare l’Unione Sovietica. E il Cremlino, ancora in guisa sovietica, restava il suo quartier generale ufficiale. Per dodici settimane, alla fine del 1991, vi furono due presidenti nella fortezza di Mosca, che significava anche due squadre di assistenti presidenziali, due tipi di protocollo, e collisioni regolari tra troupe televisive rivali mentre correvano tra le conferenze stampa del capo di stato russo e di quello sovietico”.

Il risultato di simile quotidiana e plateale conflittualità fu che nel giro di pochi giorni alcune istituzioni sparirono letteralmente dalla scena. Per esempio, il comitato centrale del Partito comunista venne scacciato dal suo edificio sulla Piazza Vecchia e il sito messo in vendita, dopo essere stato frazionato in beni immobiliari destinati al mercato privato. Nel suo voluminoso e documentatissimo saggio, la Merridale ricostruisce minuziosamente la frantumazione del potere sovietico e il trapasso dei privilegi alla nuova arrembante classe politica. Una lettura ghiotta e istruttiva…

Quando Gorbaciov consegnò a Eltsin i documenti segreti del Cremlino e dell’archivio presidenziale (tra cui i rapporti sul disastro di Chernobyl, la guerra in Afghanistan, la repressione sotto Krusciov, persino il patto originale Molotov-Ribbentrop del 1939 con annotazioni di Stalin) lo irrise: “Prendili. Ora sono tuoi”, e tutti i presenti nella sala di noce del Cremlino lo intesero come “non vedevi l’ora di metterci su le mani, adesso arrangiati…”. I rapporti tra i due erano complicati e tesi, il loro ultimo colloquio fu “prolungato e difficile”, disse in seguito Eltsin, che edulcorò il confronto. Mikhail Sergeievich Gorbaciov aveva trascorso una brutta notte, “i miei ultimi mesi da presidente dell’Urss erano stati particolarmente drammatici e ricchi di tensione”, e ciò si rifletteva nel carico umorale: “Era mortificante veder rottamare la perestroijka ancora per metà incompiuta, anzi, ai suoi primi passi. Già, allora, peraltro, si aveva la sensazione che il totalitarismo avesse messo radici assai profonde nelle tradizioni, nelle menti, nei comportamenti: il suo retaggio occludeva quasi del tutto i pori degli organismi pubblici. Di qui le inquietudini che in quei giorni non mi davano pace e che non mi hanno mai abbandonato”.

Fu con questo stato d’animo che Gorbaciov affrontò la giornata fatidica del 25 dicembre di trent’anni fa. Aveva deciso di anticipare i tempi, Eltsin si era accordato per il 26 dicembre, Gorby fece di testa sua: formalmente l’Urss era ancora l’istituzione che sovrastava le repubbliche dell’Unione Sovietica. Arrivò al Cremlino angustiato nello spirito ma impeccabile nel suo elegante completo scuro di fattura italiana, a bordo della grossa Zil nera di rappresentanza, accompagnato da due colonnelli, i custodi della valigetta coi codici nucleari. L’ultimo atto del Capo dello stato sovietico consisteva infatti nella firma da apporre sul decreto con cui si dimetteva da comandante delle forze armate, e quindi la relativa trasmissione del controllo delle 27 mila testate atomiche russe a Eltsin. Una formalità snobbata da Boris, per ripicca. Non si degnò neppure di presentarsi alla breve cerimonia del passaggio di consegne della valigetta coi codici nucleari, mandando al suo posto il maresciallo Shaposhnikov, ministro della Difesa. L’ennesimo sgarro…

Attendeva Mikhail il fido consigliere nonché abile portavoce Andrei Grachev, oggi 80enne storico, fine analista del Wall Street International Magazine e corrispondente a Parigi per la Novaja gazeta, per confermargli l’intervista con Ted Koppel, la star dell’Abc, arrivato apposta dagli Stati Uniti. Alle cinque del pomeriggio, Gorby trova il tempo per telefonare a George Bush, che si trova nella residenza di Camp David. Poi rilegge con Grachev il testo del discorso: “Mi sentii invaso da una grande, un’immensa tristezza”. Mentre stanno terminando la lettura, telefona Raissa, la moglie di Mikhail: con voce tremante e indignata, lo informa che il capo della sicurezza della presidenza russa le ha intimato di liberare la loro residenza presidenziale entro 24 ore. Gorbaciov è sorpreso, oltre che furioso: si era messo d’accordo con Eltsin per sgomberare in tre giorni: “Il volto di Gorbaciov divenne rosso per la collera”, ricorda Gracev, che chiamò il capo della sicurezza di Eltsin. “Volete che racconti alla stampa il vostro indecoroso comportamento?”, gli fa eco Gorbaciov. Il dettaglio rivela a quale livello di meschinità era arrivato il braccio di ferro fra Eltsin e Gorby.

La vendetta di Boris, spesso e volentieri umiliato da Gorbaciov che lo aveva scalzato dall’olimpo sovietico nel 1987… la fine dell’Unione Sovietica è una storia anche shakesperiana, lo scontro di due uomini che hanno visioni grandiose del destino russo.

È alle 19 che Gorbaciov si reca nello studio tv del Cremlino. C’è qualche giornalista, il fotografo Cino-americano Liu-Heung-shing (lavora per l’Associated Press). Il copione prevede che Gorbaciov sigli il decreto in cui conferma le dimissioni. Ma la sua stilo è scarica. Così Tom Johnson, presidente della Cnn, gli presta la sua Montblanc (ora è esposta al museo della stampa di Washington).

Gorbaciov inizia il suo ultimo discorso da presidente sovietico. Il Kgb ha vietato che venissero scattate delle foto mentre Mikhail parla: “Che importa? Assistevo alla fine della rivoluzione bolscevica e così mi sono detto: fisserò il momento in cui il presidente chiuderà le sue carte”. Liu scatta la foto ma l’agente del Kgb gli sferra un cazzotto. Riesce a filarsela prima che gli strappino la macchina fotografica. Incrocia dei colleghi rimasti in attesa, invidiosi gli fanno un gestaccio, appena fuori dal palazzo assiste all’ammainabandiera quasi furtivo. In Russia, la realtà storica è sempre ben differente dai cliché abituali, si disse Liu. Talvolta la Grande Storia è disseminata di piccole, simboliche tracce.