di Enrico Masi
Qui la prima e la seconda parte
Concludo sul discorso relativo ai test. La strategia giapponese non prevede una ricerca degli asintomatici. Ovvio che, all’inizio della pandemia, non potessero esserne al corrente, eppure, dopo più di un anno, questi dati importanti vengono trascurati, come denuncia anche l’ex giornalista dell’Asahi, Sato Akira, in un intervento sul Covid a novembre: “Lascia esterrefatti come il Giappone, che aveva intrapreso una via erronea sulla conduzione dei test all’inizio della pandemia, non abbia fatto nulla per correggerne il tiro.”
E il punto è che tutto questo porta a uno scarso numero di test. Il ministero li esegue solo per chi rientra dall’estero o in caso di cluster, limitando drasticamente l’accesso per le altre categorie. Per prima cosa, bisogna chiedere il permesso ai centri sanitari: i requisiti necessari sono avere febbre alta per almeno quattro giorni. Quindi, a chi li chiama accusando, oltre alla febbre, anche altri sintomi come la perdita di gusto, viene comunque chiesto di aspettare. Ma dopo i quattro giorni non è scontato accedere ai test: secondo alcune testimonianze, anche dopo ci si vede rifiutata la richiesta col consiglio di chiamare un’ambulanza in caso la malattia peggiori. Solo allora si effettuerà il test. Una vera e propria opera di dissuasione.
Se la strategia è stata affidata ai centri sanitari lo si deve ai tecnocrati. Ma perché l’hanno fatto? Questi centri sono posti preziosi per piazzare se stessi e i loro simili. Ma, avendo subito negli anni diverse opere di ridimensionamento, hanno usato il Covid per dimostrarne l’importanza e cercare di arginare ulteriori riduzioni. Quindi guai a fare un numero elevato di test, altrimenti il sistema va in tilt.
Esiste anche un altro fattore sociale molto interessante: la pressione esercitata da molte aziende sui dipendenti perché non facciano test, ma l’argomento richiede un intervento a parte. Esiste comunque una cartina di tornasole: il tasso di positività. Il virologo Kutsuna Satoshi segnala che il 14 aprile 2020, durante la prima ondata, a Tokyo con 141 positivi si registrava un tasso del 31,6% (8,8 a livello nazionale).
In pratica, era solo la punta dell’iceberg. E ricordo che l’Oms ha stabilito una soglia di allarme al cinque per cento. In caso contrario, il numero dei test non è in grado di dare un quadro reale della situazione. Da allora, sicuramente c’è stato un relativo aumento dei test ma il risultato è quello del grafico, dove si vede quest’anno, ad agosto, il numero di test ogni mille abitanti rispetto ad altri paesi.
Decisamente troppo pochi. Tra parentesi, anche l’Italia, con una popolazione che è la metà di quella del Giappone, ne esegue un numero molto più elevato. Di seguito, un grafico sul numero di test effettuati.
Riprendo sul tasso di positività. A livello nazionale, anche con le altre ondate ci sono stati spesso tassi superiori al cinque per cento. Durante la terza ondata, il 6 gennaio 2020 a Tokyo si è avuto un tasso del 14,4% con 1912 positivi e, in tutto il paese, uno superiore al dieci per cento. Dati, questi, che avevano costretto Tokyo il 22 dello stesso mese a ridimensionare la portata delle indagini epidemiologiche, concentrandosi sulle categorie più a rischio. Stesso copione andato in onda anche durante l’ondata di quest’estate: ancora una volta viene fuori l’inadeguatezza dei centri. In caso di crisi, invece di rafforzare il sistema si allenta la presa.
Sul fronte dei morti, il governo Kishida promette all’associazione sulle vittime ai domiciliari di far luce sul vero numero di deceduti. Attualmente il Giappone gode dei frutti di una campagna vaccinale che, seppur iniziata con un discreto ritardo, è stata portata avanti con grande rapidità. Ciò che lascia però perplessi è che la terza dose del vaccino sarà distribuita a otto mesi dalla seconda, eccezion fatta per quelle strutture mediche o Rsa dove si dovessero verificare dei cluster. Per la serie, se si contagiano gli concediamo la terza dose. Si prevede a breve un valzer sulle tempistiche.